Carlo Marroni, Il Sole-24 Ore 30/9/2008, pagina 16, 30 settembre 2008
Il Sole-24 Ore, martedì30 settembre A ottant’anni dalla nascita, l’Opus Dei conta oltre 85mila membri effettivi
Il Sole-24 Ore, martedì30 settembre A ottant’anni dalla nascita, l’Opus Dei conta oltre 85mila membri effettivi. Non tanti, di fronte alla massiccia militanza di molte altre organizzazioni. Ma ognuno di loro ne mobilita 100. Insomma, un’applicazione del tutto inedita del keynesismo, che invece dei redditi agisce sui fedeli. Che la teoria del moltiplicatore di anime abbia una sua fondatezza è dimostrato dalla cerimonia di canonizzazione del fondatore, Josemarìa Escrivà de Balaguer, il 6 ottobre 2002, quando in piazza San Pietro affluirono oltre 300mila persone e 400 vescovi da 61 Paesi. C’è chi pensa, e sono in tanti, che l’Opus Dei moltiplichi anche il reddito, vista la vulgata sulle ricchezze che arriva a paragonare l’Opera ai disciolti Templari, che vivrebbero ancora in segreto complottando di continuo. Difficile stabilire con esattezza cosa sia ricchezza e chi la controlla, ma una stima - riferita da John Allen del National Catholic Reporter, che ha scritto un documentato libro sulla realtà dell’organizzazione - c’è: 2,8 miliardi di dollari. Una cifra di tutto riguardo (seppur irrisoria se paragonata al patrimonio di molte congregazioni religiose, a partire dai radicatissimi salesiani), che emerge dalla valutazione dei beni patrimoniali sparsi per il mondo e funzionali alle varie attività dell’Opus Dei (università, scuole, centri di formazione, alloggi, sedi) ma che non sono nella disponibilità del prelato, il vescovo Javier Echevarrìa, che è a capo della Prelatura personale. La grande maggioranza dei beni appartiene a enti e soggetti autonomi e autofinanziati aderenti alla fraternità dell’Opera e funzionalmente autonomi. Questo peraltro deriva da un preciso dettato del fondatore, il quale fissò la regola che ogni iniziativa si debba autofinanziare. così per il Campus Biomedico, gioiello della medicina a Roma, l’Università Santa Croce o il Centro Elis, nel quartiere Tiburtino di Roma, nato nel 1965 per la formazione dei giovani delle periferie abbandonate. Beni che arrivano il più delle volte da donazioni, come quella straordinaria di 68 milioni di dollari a New York, che permise la costruzione ultimata nel 2001 del Murray Hill Place, 16 piani in mattoni rossi sulla Lexington Avenue a Manhattan, sede americana dell’Opera, presa d’assalto dai turisti più ingenui che ancora entrano nella hall alla ricerca del vescovo Aringarosa, protagonista sanguinario del romanzo (e poi del film) Il Codice da Vinci. L’Opus Dei in quanto tale ha al suo interno una sorta di direttore finanziario - Pablo Elton, ingegnere cileno, che amministra un budget di poco meno di 2 milioni di dollari - è proprietaria solo di Villa Tevere (e dell’adiacente Villa Sacchetti), una costruzione degli anni 50 su viale Bruno Buozzi, nel quartiere Parioli a Roma, dove ha sede la struttura centrale mondiale e dove sono sepolti sia il fondatore san Escrivà - che fondò l’Opera il 2 ottobre 1928 in un convento vincenziano di Madrid - che il suo successore, Alvaro del Portillo, anche lui in odore di santità. Dice Pippo Corigliano, ingegnere, autore di Un lavoro soprannaturale, la mia vita nell’Opus Dei, un libro in uscita oggi, e da anni direttore dell’ufficio comunicazione dell’Opus Dei: «Noi non facciamo il pane ma il lievito. L’Opera deve formare cattolici normali, non speciali, non è una griffe, non c’è un inno, ognuno vibra con la sua nota, come un diapason». Ma resta il fatto che l’Opera è vista con occhi diversi da tutte le altre organizzaizoni cattoliche. Anzitutto perché diversa lo è sul serio, visto che è l’unica Prelatura Personale, figura introdotta del diritto canonico dal Concilio Vaticano II, esistente nella Chiesa: una Diocesi senza territorio, guidata dal Prelato Javier Echevarrìa, una forma di auto-organizzazione che permette agli aderenti di continuare a far parte anche delle chiese locali o delle diocesi dove hanno il domicilio. Ma la diversità, che la fa somigliare ad un’èlite, alla fine salta agli occhi con evidenza. Degli 85mila membri, circa il 20% è composto dai cosiddetti "numerari", membri che fanno dell’Opus Dei la propria famiglia, si impegnano sul celibato e vivono nelle case dell’Opera, mettono in comune i redditi e vivono assieme l’esperienza religiosa. Bene: per diventare numerari bisogna essere laureati in una materia civile e una religiosa e intraprendere un cammino che dura almeno 6 anni e mezzo. Insomma, una selezione durissima che non può non generare un’èlite: dai sacerdoti, fino ai soprannumerari, la maggioranza, che di solito sono sposati. Tra questi risultano alcuni membri eminenti dell’economia e della politica, come Ettore Bernabei, Giuseppe Garofano e Bettino Ricasoli, Paola Binetti del Pd (numeraria femminile), e in Francia Jacques de Chateauvieux, presidente del Consiglio di sorveglianza di Axa. Una selezione dura che per alcuni ex membri che hanno dato alle stampe vari libri arriva al plagio e a pratiche quotidiane da setta segreta: accuse che l’Opera ha sempre respinto. Una Chiesa per pochi, parrebbe. Ma la questione è un’altra: dice il Prelato che «Dio si può trovare anche a Wall Street» (e ora ce se sarebbe davvero bisogno), che altro non è che la trasposizione pratica di uno dei cardini dell’Opera: «Cercare la santità nel lavoro, che significa impegnarsi per svolgerlo bene, con competenza professionale e con senso cristiano, cioè per amore di Dio e per servire gli uomini. In questo modo, il lavoro ordinario diviene luogo dell’incontro con Cristo». Un’impostazione per certi rivoluzionaria per la Chiesa, che all’inizio non è stata capita. Ma allora se la ricchezza non sembra appartenere direttamente all’organizzione, ma al massimo ai suoi membri, l’Opus Dei è potente? Anche se l’impressione è che nei Sacri Palazzo l’Opera abbia aumentato la sua influenza, in realtà ha un peso abbastanza limitato e di certo meno evidente dopo che il numerario Joaquim Navarro-Valls ha lasciato la carica di direttore della Sala Stampa vaticana. Alcuni membri sono inseriti nelle congregazioni di curia, ancora di più sono nelle diocesi, specie in Centro e Sud America e in Spagna. Ma la domanda è se con Benedetto XVI sia scesa la capacità di influenza rispetto a Giovanni Paolo II? Con Wojtyla c’era una affinità elettiva molto forte, e di certo fu lui ha decidere di concedere nel 1982 lo status di Prelatura personale. Con Benedetto XVI c’è una lunga consuetudine e tutti lo considerano nell’Opera la migliore scelta che potesse essere operata dal Conclave, ma certo non sfugge che Ratzinger, papa di pochi abbracci, di principio tende a preferire le forme tradizionali di vita religiosa. Un rapporto fecondo c’è con il Segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, con Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, e con l’ex Vicario, Camillo Ruini. Carlo Marroni