Sergio Pent, La Stampa 1/10/2008, 1 ottobre 2008
Il dibattito è feroce, la scuola balza in prima pagina a suon di voti in condotta e grembiulini, tutte le testate e i programmi tv danno spazio alle nudità sotto quei grembiuli, tutti intervengono a favore o contro, tutti meno i diretti interessati, gli insegnanti, dei quali sembra che la scuola possa fare a meno
Il dibattito è feroce, la scuola balza in prima pagina a suon di voti in condotta e grembiulini, tutte le testate e i programmi tv danno spazio alle nudità sotto quei grembiuli, tutti intervengono a favore o contro, tutti meno i diretti interessati, gli insegnanti, dei quali sembra che la scuola possa fare a meno. Non intendo addentrarmi nel merito dei dolorosi tagli, sistematici e impietosi già da varie legislature di ministri riformatori, né tantomeno nel luogo comune - comunque effettivo - della scuola come risorsa essenziale di un Paese con un occhio al futuro. Pongo invece l’attenzione sulla scuola primaria, che non è più «elementare» fin dai tempi di Letizia Moratti e delle famigerate tre «I». Le colpe rilevate da Luca Ricolfi nell’editoriale (del 25 settembre) indirizzato a scalfire «il mito della scuola elementare», l’unico «mito» rimasto nella scuola pubblica, non tengono forse conto del fatto che la dignità di quel primo ciclo scolastico è stata ripetutamente riconosciuta, e non da ieri, a livello europeo. La scuola primaria non è mai stato un mito, solo un campo di battaglia che sopravvive grazie al senso di responsabilità della maggior parte di chi ci lavora con un minimo di passione e professionalità, navigando a vista nel mare magnum di riforme, progetti, indicazioni, illusioni di autonomia, mirando a denti stretti verso un unico obiettivo: accompagnare con autorevolezza e competenza individui tra i 6 e gli 11 anni in un percorso di crescita psicologica, formazione, istruzione, costruzione di un valido e autonomo metodo di studio utile ai successivi livelli scolastici. I docenti - non certo i paladini - della scuola «elementare», sottopagati e screditati agli occhi della pubblica opinione - se sei un prof quantomeno ti elemosinano un riconoscimento sociale, mentre un maestro ormai fa quasi compassione - e delle famiglie sempre più immature e attente a proteggere figli covati e scusati fino a una sempre più remota maggiore età, seminano in cinque lunghi anni quanto dovrà dare frutto anche più avanti. E spesso seminano bene. Il sospetto è che se a 11 anni un allievo avvezzo ormai a esprimersi con sufficiente scioltezza anche sulla pagina scritta - dopo felici maratone di letture onnicomprensive, conversazioni, temi, o testi, riassunti o sintesi, laboratori di lettura e scrittura, incontri con scrittori, discussioni - trascorre i successivi 8 anni fino al diploma senza spesso essere invitato ad affrontare un testo se non per rispondere all’immancabile questionario somministrato a fine lettura, senza essere esortato a scrivere liberamente sui più disparati argomenti, è quasi inevitabile che arrivi all’università avendo dimenticato le più banali regole ortografiche. Un testo o un tema al trimestre (quadrimestre, pentamestre...) e la conta dei peli nelle orecchie di don Abbondio o la descrizione del vestiario - accuratamente non firmato - di Lucia quando dà l’addio ai suoi monti non incentivano certo alla lettura mandrie di adolescenti armati di tecnologie assassine. Chi non ha mai lavorato seriamente nella scuola primaria a tempo pieno non può ovviamente capire quanto e perché sia superato l’insegnante tuttologo, e quanto e perché in otto ore di scuola giornaliere - esigenza sociale peraltro indiscussa, almeno al Nord - molti «saperi» passino anche attraverso la fase ludica, la socializzazione, il sistematico intervento sulle famiglie aggressive ma fragili, che ormai vanno educate più dei loro figli a mantenere il contatto con la realtà. Come potrebbe mai un bambino impegnarsi nello «studio autonomo» se sbolognato come un pacco per tutto il pomeriggio, con il solo ausilio dei nonni compiacenti e di mamma tv? Conclusione: nessuna. Ciascuno rifletta a seconda del proprio ruolo sociale, ciascuno guardi un po’ oltre le riforme scolastiche che, dagli sciagurati debiti a vita di Berlinguer in poi, hanno provato a giocare sulle modifiche che cambiano molto senza cambiare nulla, soprattutto senza migliorare nulla. La scuola sembra essere diventata il divertimentificio dei ministri addetti alla sua evoluzione epocale, mentre i maestri - e i prof - continuano a sopravvivere a se stessi lasciandoci ogni residuo entusiasmo. Tanto, per i rampolli della Casta esistono pur sempre le scuole private. Stampa Articolo