Federico Fubini, Corriere della Sera 1/10/2008, 1 ottobre 2008
Al pari del panico, quello dell’«io l’avevo detto» è uno dei virus endemici di questa crisi. Ovunque politici, economisti e osservatori fanno a gara a ricordare loro vecchie opinioni poi comprovate dai fatti, magari anche solo in parte
Al pari del panico, quello dell’«io l’avevo detto» è uno dei virus endemici di questa crisi. Ovunque politici, economisti e osservatori fanno a gara a ricordare loro vecchie opinioni poi comprovate dai fatti, magari anche solo in parte. Più composti invece sono alcuni dei protagonisti intellettuali di un’epoca ora forse al tramonto. Non si tratta solo di Ben Bernanke, che prima di diventare presidente della Federal Reserve lesse l’esorbitante indebitamento estero dell’America come in uno specchio concavo: «Eccesso di risparmio dell’Asia». Né tanto del suo predecessore Alan Greenspan, il quale al Congresso si pronunciò contro la regolazione degli scambi privati di derivati perché «li usano professionisti che non hanno bisogno di tutele come piccoli risparmiatori». Non si tratta di loro due, perché la fiducia di Greenspan non si fondava sull’improvvisazione. Alla base c’erano studi e equazioni differenziali che facevano fioccare i Nobel e, a seguire, una fiducia crescente in quelle formule. Quando nel ’97 Robert Merton e Myron Scholes vinsero il premio per il loro metodo per determinare il valore dei derivati, l’Accademia di Svezia ebbe parole che oggi suonano crudeli: «Le banche e le banche d’affari usano la metodologia (di Merton e Scholes, ndr) per valutare i nuovi strumenti finanziari e offrire strumenti ritagliati sui rischi dei clienti. Al contempo, questi istituti possono ridurre l’esposizione al rischio sui mercati». Qualunque riferimento alle obbligazioni basate sui mutui è puramente spietato. Ma le banche ci credevano. Merton, Scholes e Fischer Black avevano «dimostrato » che basta guardare al prezzo di un attivo, non al rischio che esso ingloba, per dare il giusto valore a un altro titolo (per esempio, un’opzione a vendere o a comprare) che ci viaggia sopra. Che la vita vera fosse un’altra cosa Scholes lo vide l’anno dopo quando LTCM, il suo «hedge fund», collassò. Ma il metodo è sopravvissuto e oggi si rivolta contro i suoi fedeli: nessuno aveva capito il rischio di crollo dei prezzi delle case in America e dunque delle obbligazioni fondate sul mattone. Intanto però dal 2005 il valore teorico dei soli Cds, derivati che assicurano dall’insolvenza sui debiti, è salito da 15 mila a 62 mila miliardi di dollari (quattro volte il pil degli Stati Uniti). E il colosso Aig è naufragato perché aveva venduto troppi Cds a garanzia di titoli basati sui mutui. Eppure la tradizione era nobile. Merton lavorava a Stanford con William Sharpe, Nobel del ’90 e padre del metodo usato per prezzare i titoli finanziari. Le sue teorie, così l’Accademia di Svezia, mostrano che «i rischi si possono spostare al mercato dei capitali, comprare, vendere e valutare». Eccetto che l’ultimo passaggio stavolta non ha funzionato. Niente di vistoso però. Non rispetto all’elogio che Edward Prescott, Nobel del 2004, fece degli sgravi fiscali per i ricchi decisi di George W. Bush con l’America in pieno deficit per la guerra. Allora anche il miliardario Warren Buffett notò che se lui paga meno tasse della sua segretaria, qualcosa non va. Erano i tempi in cui Greg Mankiw di Harvard, economista alla Casa Bianca, chiamava il suo barboncino «Keynes». Oggi Keynes, sinonimo di salvataggio-tassa- e-spendi, è il padrone. Federico Fubini