Alberto Crespi, l’Unità 28/9/2008, pagina 18, 28 settembre 2008
Biografia di Paul Newman
l’Unità, domenica 28 settembre Se avete in casa il dvd di Cars - sì, quel cartone animato sulle automobili - perché l’avete regalato ai vostri bambini, infilatelo nel lettore e ascoltatelo in lingua originale. La voce di Doc - l’ex campione, la vecchia auto da corsa - è la sua. Lui ci scherzava («Ho iniziato la carriera con una conferenza sulla pessima recitazione e l’ho finita con il ruolo di un’automobile») ma sotto sotto quel cartone doveva essergli piaciuto, perché era un appassionato di corse e nel ”79 era arrivato secondo alla 24 ore di Le Mans: un podio al quale probabilmente teneva più che all’Oscar. Ora che ci ha lasciati, sappiamo che sulla sua tomba non verrà scritta la frase alla quale lui stesso aveva pensato: «Qui giace Paul Newman, morto di dolore perché i suoi occhi erano diventati marroni». Gli occhi sono rimasti azzurri fino all’ultimo, e Newman era, anche dopo gli 80 anni, un vecchio bellissimo. Di lui Lee Strasberg, il suo maestro all’Actor’s Studio, diceva: «Se fosse stato meno bello sarebbe stato più bravo di Marlon Brando». Una frase che ricorda quella che George Best, il «quinto Beatle», il famoso calciatore del Manchester United, diceva di sé: «Se fossi stato meno bello non avreste mai sentito parlare di Pelè». curioso come i belli, a volte, fatichino a fare i conti con la propria bellezza. Newman raccontava di aver capito l’effetto che faceva alle donne durante le riprese di Hud il selvaggio, in Texas, nel 1963: «Tentavano letteralmente di scavalcare la recinzione del motel dove abitavo. All’inizio, è gratificante. Ma solo all’inizio... poi capisci che ti confondono con i ruoli che interpreti, e che tutto ciò non ha niente a che vedere con il vero te stesso». Ciò non toglie che per decenni Paul Newman è stato uno dei divi più «redditizi» di Hollywood, e che in questo successo il fascino sia stato importante almeno quanto il talento. Lui, però, aveva un pessimo rapporto con il proprio alter-ego, là sullo schermo: «Non riesco a guardarmi. Se mi rivedo in una scena osservo solo la tecnica, gli errori, la fatica che mi è costata». una fatica che risale agli inizi della carriera. Paul Newman non è stato attore per vocazione, non era quel che si dice «un talento naturale». Figlio di un negoziante di articoli sportivi, nasce a Cleveland, Ohio, il 26 gennaio del 1925. Dopo aver servito in Marina (come marconista) durante la guerra, lavora nel negozio paterno e vive una gioventù turbolenta: espulso dall’università, nel 1950 ha già un figlio, un matrimonio compromesso e un sacco di voglie matte in testa. All’inizio degli anni 50, già grandicello, ritenta con gli studi: si iscrive a Yale, frequenta la compagnia teatrale universitaria e tenta la fortuna a New York. Nel ”53 ottiene il ruolo da protagonista nel dramma Picnic di William Inge ed entra all’Actor’s Studio per caso: accompagna un’amica che ha bisogno di un partner per un’audizione, come a volte capita non prendono lei e notano lui. Ma fin da allora, ha raccontato, la recitazione per Newman non è gioia ma lavoro, duro lavoro: una dolorosa terapia per superare le proprie insicurezze. Il passaggio al cinema è traumatico. La «conferenza sulla pessima recitazione» di cui parlavamo in apertura è il modo in cui Newman descrive il proprio esordio, nel 1954, in Il calice d’argento, pessimo film in costume sul Santo Graal diretto da Victor Saville. Il giovane Paul è così deluso dalla propria performance che paga di tasca propria un annuncio su un giornale per scusarsi con gli spettatori. Ma è solo questione di tempo. Il cinema americano, alla metà degli anni 50, sta cambiando. Sotto i colpi della tv, il vecchio studio-system hollywoodiano perde centralità. Si diffonde un nuovo gusto, piacciono facce diverse, meno da «star», più vicine alla gente reale. Una nuova generazione di attori sta per imporsi: vengono dal teatro, sono seguaci del Metodo (quello che Strasberg insegna all’Actor’s Studio, ispirandosi alla tecnica del russo Stanislavskij), lavorano duramente sull’identificazione psicologica, portano nel cinema le inquietudini e le ribellioni giovanili del dopoguerra. Uno di loro, già famosissimo in teatro, è un divo del cinema dal ”48: Montgomery Clift, esordiente «alla pari» con John Wayne nel meraviglioso western Il fiume rosso, di Howard Hawks. Un altro, Marlon Brando, ha fatto il botto nel 1951 portando sugli schermi Un tram che si chiama desiderio. Un terzo, James Dean, esplode come una meteora due-tre anni dopo: tre film (La valle dell’Eden, Gioventù bruciata, Il gigante) e una morte che lo consegna alla leggenda. Intanto Newman suda, fatica, arranca. Ma il secondo film, nel ”56, è decisivo: il ruolo del pugile italo-americano Rocky Graziano si presta ai supplizi fisici e psicologici che il giovane attore si infligge. Il film, Lassù qualcuno mi ama, è un successo. Newman, lavorando con Graziano che è poco più anziano di lui (del ”22, campione del mondo dei medi tra il ”47 e il ”48), scopre che il pugile, un paio d’anni prima, è stato perseguitato da un altro giovane attore che voleva «studiarlo» per interpretarne la vita: «Si chiamava Marlon Brando, lo conosci?». Anche da questa coincidenza, Newman capisce di aver scelto il cavallo giusto. Fa di Rocky un giovane chiuso e disadattato, che attraverso la violenza esprime rabbia e bisogno di amore. Qualcosa di simile fa, due anni dopo, interpretando Billy the Kid in Furia selvaggia, di Arthur Penn, il western più psicoanalitico della storia: una rilettura molto «newyorkese» del celebre fuorilegge, non a caso tratta da un dramma di Gore Vidal che con il vero West aveva ben poco a che fare. Il ”58 è l’anno in cui Newman diventa un divo: interpreta, oltre a Furia selvaggia, La lunga estate calda (nel quale ritrova un’attrice già conosciuta in teatro, Joanne Woodward: non si lasceranno mai più) e La gatta sul tetto che scotta, da Tennessee Williams, dove ingaggia con Liz Taylor un rovente duello di sensualità. Otto Preminger lo chiama nel ”60 per Exodus: « l’unico attore ebreo che non sembra ebreo», dice. Sì, Newman - i cui genitori vengono entrambi dall’Ungheria - è ebreo al 50%, anche se non ha mai pubblicizzato troppo questa sua origine. Nel ”61 Robert Rossen, un regista da riscoprire, gli regala uno dei suoi ruoli più belli, il giovane Eddie Felson che sogna di sfidare a biliardo il campione Minnesota Fats: il film è Lo spaccone, ammirato e citato da tutti gli appassionati della stecca, anche dal Francesco Nuti di Io Chiara e lo Scuro. Seguono Hud il selvaggio, Detective’s Story, Nick Mano Fredda e gli amatissimi Butch Cassidy e La stangata, entrambi di George Roy Hill, dove forma con Robert Redford una coppia irripetibile. Sono i film che, negli anni 60, scrivono la sua leggenda. Comincia a collezionare candidature agli Oscar: sono già 7, senza nessuna vittoria, quando finalmente vince nel 1987 per Il colore dei soldi, seguito - infinitamente inferiore - dello Spaccone. Forse per scaramanzia, non si presenta alla cerimonia, e in seguito dichiara: « come inseguire una bella donna per 80 anni, e quando lei finalmente cede, doverle dire: mi spiace, sono stanco». Man mano che gli anni passano, i ruoli si evolvono: anziché il giovane bello ma autistico, incapace di trovare un posto nel mondo, comincia ad interpretare uomini maturi, a volte quasi saggi, come Butch Cassidy e l’Henry Gondorff della Stangata - e in quegli stessi anni sono indimenticabili le sue prove in Un uomo oggi, L’uomo dai 7 capestri (stranissimo western grottesco di John Huston) e Agente speciale Macintosh. bello pensare che la svolta della carriera sia una giornata molto particolare descritta da Hill in un «dietro le quinte» di Butch Cassidy: «Per mesi avevamo pensato che Brando avrebbe interpretato Butch, e Newman il più giovane Sundance Kid. Quando Brando rinunciò e fu scritturato Redford, la nuova distribuzione dei ruoli non fu chiarita, e al primo giorno di prove Newman cominciò a leggere la parte del Kid, e Redford quella di Butch. Dovetti dir loro: scusate ragazzi ma avevamo pensato il contrario, Paul fa Butch e Robert fa il Kid». Da quell’equivoco Robert Redford ha ricavato il Sundance Festival... e Newman, chissà, una nuova consapevolezza, una dimensione di «uomo fatto» che prima era incompiuta, e che lo aveva reso perfetto in ruoli da emarginato, da violento controvoglia, da reietto. Dopo, invece, vengono parti sempre problematiche, ma con una nuova, potente solennità, come l’avvocato del Verdetto, il poliziotto di Fort Apache: the Bronx, e naturalmente l’Eddie Felson invecchiato, capace di tenere a bada il giovane fan Tom Cruise, nel citato Il colore dei soldi. Nel frattempo Newman si è rivelato anche un bravo regista. Ha diretto 5 film: Rachel, Rachel (1968), Sfida senza paura (1971), L’effetto dei raggi gamma sulle margherite (1972), Harry & Son (1984) e Zoo di vetro (1987), dal dramma di Tennessee Williams. Sono molto diversi l’uno dall’altro e testimoniano soprattutto un affettuoso lavoro sugli attori, si tratti dell’adorata Joanne Woodward o del sommo Henry Fonda (lui e Newman interpretano due fratelli nel durissimo Sfida senza paura, forse il più inatteso e interessante del mazzo). Dagli anni 70 Newman si confronta anche con la Nuova Hollywood, interpretando un cialtronissimo William Cody in Buffalo Bill e gli indiani di Altman e arrivando fino a Mister Hula-Hoop dei fratelli Coen. L’ultimo, vero film è Era mio padre di Sam Mendes, ennesima candidatura (la decima) all’Oscar. Tre ultime cose. sempre stato un convinto sostenitore del partito Democratico ed era orgoglioso che il suo nome comparisse nella lista dei «nemici» di Richard Nixon ai tempi del Watergate. Ha avuto un enorme successo con la linea di prodotti alimentari «Newman’s Own»: gli ha fruttato, negli anni, circa 200 milioni di dollari andati tutti, dicasi TUTTI, in beneficenza. E nonostante la leggenda, non era un tappo. Quando lo vedemmo da 3-4 metri di distanza a Cannes, l’anno in cui presentò Zoo di vetro, ci sembrò alto come noi. Il sito internet www.imdb.com indica un’altezza di 1,77. Chi scrive è 1,76. Un centimetro fa la differenza. Alberto Crespi