Massimo Gaggi, Corriere della Sera 30/9/2008, 30 settembre 2008
NEW YORK
Adesso il muro che separa l’America dalla crisi di panico paventata dallo stesso Bush si è fatto veramente sottile. I «pontieri» del Congresso tentano di rimettere insieme i pezzi del piano di salvataggio della finanza Usa bocciato ieri dalla Camera, ma il danno materiale e psicologico è enorme.
Un altro crollo della Borsa, il più grosso dall’attacco di Bin Laden nel 2001, banche centrali costrette a inondare nuovamente di liquidità il sistema bancario, governo sostanzialmente disarmato. Con Bush ormai ridotto a presidente-larva, i mercati si erano aggrappati all’autorevolezza della Fed e del ministro del Tesoro. Che escono a pezzi dal voto del Congresso. Il Paulson che si è presentato ieri sera davanti alle telecamere è un uomo esasperato, sull’orlo di una crisi di nervi. Se non è l’infarto – economico ma anche politico – paventato dal «custode del dollaro» Ben Bernanke, poco ci manca.
Intanto la frana delle banche Usa avanza inesorabile costringendo il governo a insistere con la politica dei salvataggi caso per caso: la settimana scorsa Washington Mutual, ieri Wachovia.
La destra liberista considera una vittoria lo stop a Paulson: ha prevalso il «no a un salvataggio che altera radicalmente e in modo permanente le regole del mercato», come recita l’appello che 44 economisti conservatori, guidati dall’ex leader repubblicano al Congresso, Dick Armey, hanno inviato nei giorni scorsi al Congresso.
Ma la ricetta alternativa proposta dagli esperti che criticano il ministro, ad esempio quelli che fanno capo all’università di Chicago, forse può proteggere meglio il contribuente e ridurre alcune distorsioni, ma non offre alcuna garanzia dal lato del contenimento dell’intervento dello Stato.
Anziché acquistare titoli immobiliari oggi privi di valore, col relativo trasferimento di tutti i rischi sulle spalle del contribuente, i «fiscal conservative » propongono interventi per stimolare i privati a intervenire per ricapitalizzare il sistema bancario. Siccome gli investitori americani non hanno alcuna intenzione di muoversi e anche i «fondi sovrani» degli altri Paesi stanno a guardare, si chiede al Tesoro di intervenire, ma in modo diverso: in cambio del finanziamento pubblico dovrà ricevere quote del capitale delle banche, anziché obbligazioni invendibili. In questo modo il contribuente sarebbe meglio tutelato, ma lo Stato si troverebbe impegnato in modo ancor più diretto nella gestione del sistema.
Del resto già con l’operazione Citigroup- Wachovia, l’America veleggia verso una forma di «dirigismo bancario »: una specie di sistema alla francese basato su tre «campioni nazionali», peraltro fuori forma. E che, quindi, avranno bisogno di un sostegno pubblico. L’ultimo salvataggio bancario, quello annunciato all’alba di lunedì, comincia a delineare il punto d’approdo della finanza americana. Se la nave arriverà in porto senza affondare prima, il sistema si riorganizzerà attorno a tre grandi gruppi bancari: JP Morgan Chase che ha assorbito prima Bear Stearns e poi Washington Mutual, Bank of America che, dopo l’acquisizione di una serie di istituti minori e di giganti delle carte di credito, si è fusa con Merrill Lynch, e Citigroup. Tre gruppi enormi ma vulnerabili, che il Tesoro dovrà tenere a tutti i costi in vita. JP Morgan è il più solido, ma è stato costretto a crescere più di quanto avrebbe voluto in una fase di mercato depresso. Bank of America raccoglie molto risparmio, ma ha anche vari punti deboli come la forte esposizione nel mercato delle carte di credito, il prossimo candidato allo «stato di crisi». Il suo capo, Ken Lewis, è politicamente impegnato col partito repubblicano. Assorbendo le attività bancarie di Wachovia, Citigroup, reduce da una crisi gravissima con perdite per decine di miliardi non ancora smaltite, torna per incanto ad essere la prima banca americana (per volume di depositi). A questo punto la sua salute diventa un problema di «sicurezza nazionale».
La crisi è sistemica e ha bisogno di una soluzione sistemica, ma ogni progetto finisce in falò, travolto dall’incalzare degli eventi. La misura del livello dello sconcerto anche tra gli studiosi la dà il «blog» di Gary Becker e Richard Posner: il premio Nobel per l’Economia che insegna a Chicago continua a pensare che la tempesta finanziaria avrà alla fine uno sbocco di mercato («il capitalismo viene dato per morto a ogni crisi, eppure è sempre lì»), ma ammette di aver sottostimato la portata della crisi e, dopo averla osteggiata, adesso rivaluta la ricetta Paulson, almeno per evitare il «meltdown ».
Nella sua risposta il celebre giurista conservatore si dice anch’egli convinto che «il capitalismo sopravviverà perché tutto il resto, dal comunismo classico al corporativismo fascista non è praticabile», è fallito. Ma quello che sopravviverà «sarà un capitalismo danneggiato, costretto al compromesso. Del resto già 80 anni fa la Grande Depressione ci lasciò in eredità una buona dose di collettivismo».