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 2008  settembre 27 Sabato calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 29 SETTEMBRE 2008

«Ho lavorato 27 anni per la ”Transit Authority” e una casa non me la sono mai potuta comprare. I mutui li offrivano anche a me, ma lo sapevo che era una trappola. E adesso, oltre a non possedere una casa, dovrei pagare anche per questi matti che l’hanno acquistata senza avere un dollaro in tasca? O per i banchieri che si sono ingrassati con affari che non stavano in piedi?»: sono parole di Rick Haber, autista adesso in pensione, uno di quelli che venerdì hanno manifestato davanti a Wall Street contro la legge salva finanza da 700 milioni di dollari. Manifestazioni analoghe si sono svolte in ben 220 città americane. [1]

Nel discorso televisivo tenuto mercoledì scorso da Bush per implorare il via libera del Congresso al Piano Paulson, c’era tutta la dimensione della crisi economico-finanziaria che ha colpito la prima potenza del mondo: agli americani è stato detto che il Paese potrebbe scivolare in un panico finanziario, che molte banche potrebbero fallire, la Borsa potrebbe crollare ancora di più e con essa il valore delle pensioni, quello delle case potrebbe precipitare con un boom di pignoramenti, tante aziende potrebbero chiudere mettendo in strada milioni di disoccupati, il credito per acquistare un’auto o per mandare i figli al college potrebbe diventare introvabile ecc. [2]

«Ho 4 di Gpa - significa che è una studentessa modello - ho 90 mila dollari di debito - contratto per pagare gli studi - non ho un lavoro. Dov’è il piano di salvataggio?», si leggeva sul cartello esposto giovedì sera a Wall Street da una ragazza. [3] Fabrizio Tonello: «Economisti come Paul Krugman e James Galbraith sostengono che in realtà il problema non sono le banche di Wall Street bensì la situazione economica delle famiglie incapaci di pagare le rate del mutuo e che ogni intervento governativo dovrebbe prima di tutto risolvere questo problema, se si vuole evitare che l’economia americana tracolli». [4]

Per capire se i conti di Paulson sono corretti occorre calcolare l’importo dei mutui in sofferenza. Tonello: «Secondo i dati del Joint Center for Housing Studies (Università di Harvard) nel 2007 i pignoramenti sono aumentati del 79%, un’enormità, ma corrispondevano soltanto all’1% dei mutui in corso, cioè a circa 111 miliardi di dollari. Anche stimando un raddoppio di questa cifra a causa del peggiorare delle condizioni economiche arriviamo a poco più di 220 miliardi di dollari, nemmeno un terzo della cifra richiesta dal Tesoro». [4]

I mutui sono stati in parte pagati: non è che le famiglie abbiano smesso di pagare dalla prima rata, accettando di perdere la casa. Tonello: «Al contrario, moltissimi americani si sono svenati per tentare di difendere il frutto dei loro sacrifici e si sono rassegnati al pignoramento solo dopo aver pagato il dovuto, talvolta per molti anni. Ma questo non è nemmeno il problema principale: le banche, quando i debitori sono diventati insolventi, hanno recuperato le case ipotecate. Ora, per quanto le condizioni del mercato possano essere sfavorevoli, questi immobili prima o poi si venderanno, non è che valgono zero». [4]

I casi in cui la perdita raggiungerà il 50% del mutuo erogato dovrebbero essere del tutto eccezionali: una riduzione di valore del 20-30% sembra un’ipotesi più realistica, come avvenne negli anni ”80, quando il governo dovette intervenire per salvare migliaia di piccole casse di risparmio che avevano ceduto alla tentazione della finanza allegra. Se così fosse, il 70% dei 220 miliardi dovrebbe essere recuperabile e il costo del salvataggio diventerebbe circa 70-80 miliardi di dollari. Come mai allora l’amministrazione Bush chiede 700 miliardi? [4]

Paulson (ex grande manager di Goldman Sachs la cui carriera politica potrebbe essere prossima alla fine) chiede una cifra dieci volte superiore a quella giustificata dalle perdite sui mutui immobiliari perché i bilanci di banche, assicurazioni e altre istituzioni finanziarie nascondono perdite sui derivati e i credit-default-swaps ben maggiori di quelle provocate dal settore edilizio. Tonello: «Sono queste ”scommesse” in prodotti finanziari esoterici che minacciano di portare al tracollo l’intero sistema finanziario americano e sono queste perdite che Paulson, con il pretesto dei mutui subprime, vuole coprire». [4]

8 americani su 10 sono convinti che si debba intervenire per salvare i mercati e con questi i fondi pensione e la possibilità di avere prestiti e mutui, ma solo un terzo degli elettori approva il piano di Paulson, vissuto come troppo generoso con i manager e preoccupato solo delle sorti di Wall Street. [5] Mark Sanford, governatore repubblicano della Carolina del Sud: «Per 200 anni il modello di business nel nostro Paese si è basato su un semplice fondamento: è giusto che una persona ricavi profitto dal rischio che si prende, ma è giusto pure che di questo rischio si assuma le conseguenze». [6]

A Wall Street nessuno versa lacrime vere. Glauco Maggi: «La media dei compensi di uscita previsti nei contratti di 137 compagnie, secondo uno studio della Equilar Inc., è di 21 milioni di dollari, di cui 6,3 in cash e il resto in titoli. Quelli che sono usciti di scena nella recente tempesta l’hanno fatto con un cuscinetto di tutto rispetto: tanto più sostanzioso quanto prima, paradossalmente, la loro poltrona è traballata per i cattivi risultati. Martin Sullivan, Ceo di Aig, andandosene in giugno ha preso 19 milioni di liquidazione (ne aveva maturati 47), ma intanto ne aveva guadagnati 10,9 l’anno scorso e 39,6 negli ultimi tre. Alan Schwartz, il Ceo della Bear Stearns subentrato a gennaio 2008 a James Cayne, ha guadagnato 10,4 milioni». [7]

I 5 manager più importanti delle 1500 maggiori società quotate tra il 1993 e il 1997 hanno ricevuto in totale 68 miliardi di dollari in salario, bonus e azioni; secondo gli studi dei professori Lucian Bebchuk di Harvard e Yaniv Grinstein della Cornell, dal 1999 al 2003 questa somma è arrivata a 122 miliardi. Maggi: «In termini di percentuale di guadagno, i compensi erano il 5% del profitto aziendale nel 1993-1995, e sono balzati al 9,8% nel 2001-2003. E quando ci sono i rovesci, anche chi paga resta bene in piedi, se non ha commesso crimini e non finisce in galera (si vedrà, l’Fbi è al lavoro)». [7]

Il funzionamento dell’economia è stato delegato a un branco di laureati delle business school americane ed europee imbottiti di teorie neo-liberiste. Loretta Napoleoni: «Sono state queste stesse scuole che negli anni 80, per giustificare tasse universitarie di 100mila dollari l’anno, hanno diffuso nel mondo l’idea che i loro laureati dovevano percepire stipendi da favola perché in possesso di doti manageriali ”speciali”. Ecco i numeri di questa straordinaria campagna pubblicitaria: secondo l’Economic Policy Institute di Washington, nel 2007 i compensi dei manager alla guida delle maggiori società americane erano 275 volte più alti del salario medio degli impiegati, negli anni 70 erano solo 35 volte più alti». [8]

Questa concezione è talmente radicata che la proposta di equiparare i salari di questi signori a quelli dei grandi manager del settore statale è stata criticata da alcuni membri del congresso perché «per far funzionare il piano di salvataggio c’è bisogno delle menti migliori e se riduciamo loro lo stipendio da 5 milioni a 50,000 dollari l’anno le perderemo». Napoleoni: «C’è da chiedersi dove andranno tutte queste menti, quale banca è oggi in grado di garantire stipendi da pre-crollo? E non sarebbe forse meglio liberarsi di chi ha portato alla bancarotta i pilastri del capitalismo finanziario?». [8]

Il dilemma non è fra Stato e Mercato, ma fra due ruoli dello stesso Stato: salvare il mercato comunque, a tutti i costi, o salvare i principi di correttezza che reggono una società, a cominciare da quella basata proprio sulla libertà del mercato? Lucia Annunziata: «Per la maggioranza dei cittadini lo Stato non ha fra i doveri quello di difendere coloro che si sono arricchiti malgovernando, scaricandone i costi sulla collettività. Un punto etico, ma anche di identità sociale, che è davvero la fine del capitalismo versione populistica: denaro facile e promesse infinite. Una ricetta favorita in politica non solo dalle forze pro mercato, ma anche da quel populismo democratico lanciato da Bill Clinton sull’onda dell’espansione economica senza precedenti degli Anni 90». [6]

Hollywood non avrebbe potuto produrre una sceneggiatura migliore di quella che da due settimane Wall Street offre al mondo. Napoleoni: «Come definirla? Avvincente, esilarante e totalmente imprevedibile. Peccato che non si tratti di un film ma della vita di 250 milioni di americani. La sensazione è che se non arrivano gli effetti speciali, l’economia americana, pari al 22% di quella mondiale, retrocederà in serie B, tra i paesi in via di sviluppo. Con il salvataggio delle banche l’indebitamento nazionale salirà al 70% del Pil e questo senza spendere un soldo per soccorrere i 35 milioni di americani, e cioè l’11% delle famiglie, che già sono sul lastrico». [8]

In Svezia vent’anni fa fallirono tutte le banche, anche allora a causa di una crisi del mercato immobiliare. In tre anni, il reddito scese di oltre il 5%, la disoccupazione salì dal 2 al 10%. Lo Stato nazionalizzò le banche e per salvarle spese 6 punti di pil. Francesco Giavazzi: «Si avviò anche un ripensamento profondo del modello sociale svedese: nei quindici anni successivi l’economia crebbe a un tasso medio di oltre il 3% l’anno, quasi il doppio dei Paesi europei continentali, trascinata da un boom di produttività. Le crisi scuotono i Paesi, ma talvolta consentono quelle riforme che in tempi normali è impossibile realizzare». [9]

I prezzi delle case americane sono scesi del 20%, c’è margine per fare affari acquistando i mutui. Giavazzi: «Quando il Tesoro rivenderà i mutui, potrebbe incassare una plusvalenza sufficiente a cancellare una parte del debito pubblico. Non solo: il Tesoro scambia titoli pubblici su cui paga un interesse del 2% con obbligazioni che rendono il 10%. Un incasso netto di quasi 50 miliardi di dollari l’anno (meglio ancora, il Tesoro potrebbe acquistare azioni delle banche, come accadde in Svezia: oggi ne rafforza il capitale, a crisi finita le rivende incassando un premio). Fra 5 anni potremmo esserci dimenticati della crisi e ricominciare a guardare con ammirazione gli Usa che crescono più di noi e con meno debito pubblico». [9]