Lucia Annunziata, La Stampa 27/9/2008, 27 settembre 2008
Quello che non ha potuto la guerra in Iraq, l’ha fatto Wall Street. Il dibattito astratto fra Stato e Mercato, sotto la spinta della crisi del credito, si è trasmutato negli Usa in una crisi politica che non è forse eccessivo chiamare vuoto di potere
Quello che non ha potuto la guerra in Iraq, l’ha fatto Wall Street. Il dibattito astratto fra Stato e Mercato, sotto la spinta della crisi del credito, si è trasmutato negli Usa in una crisi politica che non è forse eccessivo chiamare vuoto di potere. Il piano con cui Bush intendeva salvare Wall Street con un intervento di circa 700 miliardi di dollari è stato bocciato dalla sua stessa maggioranza al Congresso, i repubblicani. Anche se nelle prossime ore si raggiungesse l’accordo su un diverso piano, comunque Washington è da 48 ore con un Presidente senza maggioranza, abbandonato dal partito, con il segretario del Tesoro Paulson costretto a inginocchiarsi in pubblico - raccontano le incredibili cronache - davanti a Nancy Pelosi per ottenere i voti democratici in sostituzione di quelli repubblicani. Un vuoto di potere al centro dello stesso potere mondiale. Uno scenario terrificante, che ci obbliga a ragionare, anche in Italia, fuori dalle solite litanie quotidiane. Vale la pena intanto capire cosa ha ispirato la rivolta repubblicana. La spiegazione nella pragmatica America è venuta dal solito numero che impicca tutti i ragionamenti alla realtà: secondo un sondaggio nazionale, immediatamente portato a termine, il piano Bush per salvare Wall Street era approvato solo dal 30 per cento degli elettori (repubblicani e democratici insieme). Una percentuale improponibile a qualunque politico voglia vincere un’elezione, nonché indiscutibile segnale della febbre che percorre il pur docile e stabile elettorato Usa. Un sentimento così interpretato proprio da un repubblicano, Mark Sanford, governatore della Carolina del Sud, uno di quelli che hanno contribuito alla rivolta: «Se il Congresso approvasse questo salvataggio, saremmo destinati a maggiori problemi in futuro, lasciando tutti coloro che sono stati prudenti e assennati nella gestione delle loro finanze a pagar per tutti coloro che non lo sono stati». Una frase inusuale per un’area politica identificata sempre e comunque con gli interessi del grande business e che ha il merito di entrare a piedi giunti nel piatto del dibattito astratto su Stato e Mercato. Se guardiamo a quel che succede a Washington in queste ore, la divisione non pare infatti essere fra Stato e Mercato, ma fra differenti etiche del mercato: l’etica di chi fa sacrifici e quella di chi non ne vuol fare. Per dirla ancora con le parole scritte sul Washington Post dal governatore Sanford: «Per 200 anni il modello di business nel nostro Paese si è basato su un semplice fondamento: è giusto che una persona ricavi profitto dal rischio che si prende, ma è giusto pure che di questo rischio si assuma le conseguenze. Invece, le azioni proposte oggi per il mercato del credito rovesciano questo principio, assolvendo coloro che di rischi ne hanno presi fin troppi dal peso delle loro scelte». Tradotto in politica, lo scontro di Washington riscrive il dibattito in corso anche in Europa e in Italia. Il dilemma non è fra Stato e Mercato, ma fra due ruoli dello stesso Stato: salvare il mercato comunque, a tutti i costi, o salvare i principi di correttezza che reggono una società, a cominciare da quella basata proprio sulla libertà del mercato? In America questo approdo non arriva improvvisamente, ma alla fine di un lungo percorso d’interventi dello Stato in molte gravi crisi: quella dell’uragano Katrina, quella del dopo 11 settembre, in cui il governo ha nazionalizzato 25 mila lavoratori della Trasportation Security Administration, e poi quella dei giganti del credito per i mutui di case (per altro già semi-statali) Fannie Mae e Freddie Mac, fino al pacchetto attuale per Wall Street. Mosse il cui stress è passato quasi tutto sui consumatori e sui contribuenti, spingendo verso la crisi i governi locali, come fa capire il drastico intervento del sindaco di New York Bloomberg, che ha annunciato martedì un taglio di 1,5 miliardi della spesa pubblica (scuole, pompieri, polizia, parchi, acqua) in una città ora sotto il peso di migliaia di disoccupati del mondo degli affari. Possiamo così capire quella bassa percentuale di sostenitori delle misure di Bush a favore di Wall Street: per la maggioranza dei cittadini lo Stato non ha fra i doveri quello di difendere coloro che si sono arricchiti malgovernando, scaricandone i costi sulla collettività. Un punto etico, ma anche di identità sociale, che è davvero la fine del capitalismo versione populistica: denaro facile e promesse infinite. Una ricetta favorita in politica non solo dalle forze pro mercato, ma anche da quel populismo democratico lanciato da Bill Clinton sull’onda dell’espansione economica senza precedenti degli Anni 90. Dove porterà questo umore, lo vedremo presto, fin dalle elezioni presidenziali. La possibilità che anche in America si apra una nuova fase di scontento e rivolta contro la politica e le sue soluzioni è più che un timore. Ma gli sviluppi americani parlano anche a noi. Ci sono molti paralleli tra le nostre cose e quelle dall’altra sponda dell’Atlantico: ad esempio nella rabbia dei cittadini costretti a pagare il fallimento Alitalia da un salvataggio statale che sa di favore a pochi imprenditori. Così come una lezione per noi c’è nelle linee che lo scontro americano definisce: se in Italia la trattativa Alitalia (e molte altre sul tavolo) si è sviluppata intorno alla necessità del sindacato di ammorbidirsi per permettere la modernizzazione, la fase più moderna del mercato, quella in Usa, sembra invece dirci che la crisi non riguarda il mondo del lavoro, ma quello dell’etica del capitalismo stesso. Stampa Articolo