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 2008  settembre 26 Venerdì calendario

I cinesi non si fidano più delle banche americane. Considerato che un quinto del debito pubblico americano è in mano ai cinesi, la notizia apparsa ieri sul quotidiano di Hong Kong «South China Morning Post» ha creato più di un’apprensione negli ambienti finanziari a livello globale

I cinesi non si fidano più delle banche americane. Considerato che un quinto del debito pubblico americano è in mano ai cinesi, la notizia apparsa ieri sul quotidiano di Hong Kong «South China Morning Post» ha creato più di un’apprensione negli ambienti finanziari a livello globale. L’articolo secondo il quale sarebbe stata una precisa indicazione delle autorità cinesi a bloccare l’attività di prestiti interbancari tra gli istituti locali e quelli americani ha causato la reazione irritata della Cbrc, la Commissione cinese di controllo del sistema bancario, che l’ha definito «sbagliato e irresponsabile». Ma anche senza un ordine preciso delle autorità, è un fatto che finanziarsi sul marcato cinese è diventato per le banche straniere molto più complicato dopo il crac Lehman. La materia è estremamente delicata, ma l’agenzia Reuters ha trovato almeno una mezza dozzina di operatori che hanno confermato quanto sia diventato più difficile per le banche straniere, da una settimana a questa parte, finanziarsi sul mercato interbancario cinese. Di certo, le autorità hanno chiesto, a inizio settimana, alle banche cinesi di fornire i dati sulla loro esposizione nei confronti degli Usa, richiesta che avrebbe spinto gli istituti di Pechino e Shanghai ad una «maggiore cautela» nel prestare denaro alle banche americane anche sul mercato interbancario. Un indicatore chiaro è arrivato dai volumi dei contratti swap sui tassi d’interesse, ai quali i prestiti sono ancorati. I volumi intermedianti sono crollati del 25% nell’ultima settimana a 3,7 miliardi di Yuan, dopo che nei primi mesi dell’anno il mercato valeva 20 miliardi a settimana. Niente di strano, dopo una crisi che ha portato al collasso di Bear Sterns e Lehman, al salvataggio governativo di Fannie Mae, Freddie Mac e Aig e all’annuncio da parte del Tesoro Usa di un piano da 700 miliardi per cercare di mettere un argine. Semplicemente, spiega Ye Yuzhang dell’Industrial Bank di Shanghai, «preferiamo fare questi affari con le banche nazionali» piuttosto che con quelle americane o occidentali. Reazione simile a quella vista in altri Paesi e acuitasi dopo il crac di Lehman, ma che nel caso della Cina crea qualche preoccupazione in più. Il timore, anche delle stesse autorità cinesi - da cui la definizione di «irresponsabile» oltre che «falso» nei confronti dell’articolo del «South China Morning Post» -, è che la sfiducia diffusa nella tenuta del sistema finanziario statunitense porti il cosidetto «panic selling», le vendite da panico, sulla enorme massa di debito pubblico di Washington. Debito che per circa 520 miliardi di dollari su 2670 (miliardi) è in mano della Cina, secondo - per poco - creditore di Washington dietro al Giappone che di miliardi ne ha 590. Poco meno di tutto il piano di Henry Paulson. Per questo, Yu Yongding, già componente del comitato di politica monetaria della Banca centrale di Pechino, proponeva ieri una sorta di moratoria, un accordo tra i Paesi asiatici per prevenire che l’enorme massa di titoli di Stato americani custodita tra Cina, Corea e Giappone finisca sul mercato, causando un crollo delle quotazioni e, secondo lo stesso Yu, il «collasso finanziario globale». Se non arriva alle vendite da panico sul debito pubblico, i cosiddetti Treasury bills, ha spiegato Yu a Bloomberg, «allora la Cina potrà continuare a fornire il suo supporto finanziario detenendo asset degli Usa». D’altra parte, i soldi per fornire «supporto finanziario» ci sono: 1180 miliardi di riserve in valuta straniera accumulati tramite l’aggressiva politica monetaria e commerciale fatta dal governo di Pechino negli ultimi anni, che ha promosso l’export e tenuto artificilmente basse le quotazioni dello Yuan. Adesso però, ricorda Yu, «siamo tutti nella stessa barca e dobbiamo cooperare». Stampa Articolo