Francesco Specchia, Libero 24/9/2008, pagina 20, 24 settembre 2008
Libero, mercoledì 24 settembre Et voilà, si stappa l’ultimo tabù: è possibile assistere al proprio funerale, direttamente dal proprio sarcofago, a mò d’un eroe pirandelliano
Libero, mercoledì 24 settembre Et voilà, si stappa l’ultimo tabù: è possibile assistere al proprio funerale, direttamente dal proprio sarcofago, a mò d’un eroe pirandelliano. Bastano gesti semplici per realizzare un sogno antico; da domani, la morte in diretta si presenterà in una saletta della mostra ”Il gioco del mondo” alla Triennale Bovisa di Milano. Gesti semplici e lievi, si diceva. Tac, apri la bara griffata -e taroccata- Louis Vuitton; infili le stanche membra nel broccato interno odoroso d’incenso; e da lì, segui le istruzioni del display con tanto di immagini registrate dall’alto di una telecamera. Scegli il tuo funerale, prego. ”Opzione 1: rito con pianto classico”, e via con la scena di massa con prefiche lacrimanti; ”Opzione 2: gratificazione”, folla che applaude (tanto di moda); ”Opzione 3: donna che sviene ghermita dal dolore”, attrice e/o attore che impersonano mamma e/o fidanzato; ”Opzione 4: squillo di telefonino vigliacco durante le esequie...”. Sicchè è un inedito quadretto, quello che la ”salma” si gode allegramente sdraiato. I video del funerale scorrono ironicamente, il de cuius provvisorio è divertito; e la gente ”come è accaduto, ieri, a tecnici e invitati, durante l’allestimento- dopo l’iniziale, apotropaica scrollata d’attributi farà la coda per vedere l’effetto che fa, come diceva Jannacci. Ora, urge qualche riflessione. Tale provocazione, la simulata partecipazione al proprio funerale -performance creativa ma fino a un certo punto - apre sì il percorso espositivo di una mostra - ”Il gioco del mondo” appunto - che Sergio Pappalettera, artista e regista milanese classe ”61, farà durare per tutto ottobre, per poi trasferirla nei migliori musei a New York. Ma - diciamolo - rappresenta pure un gesto estremo. D’accordo, la mostra è affascinate, densa di richiami all’estetica delle avanguardie; e prevede una dotazione di 70- copie-70 del piede del David di Michelangelo da martellare a piacimento (in memoria dell’atto vandalico realmente avvenuto nel 1971), un ottimo rimedio contro lo stress; e si stagliano, perfino, le letture sgranate di Nanni Balestrini e quelle adunche di Aldo Nove, e un inedito Lorenzo Cherubini Jovanotti il quale, per l’occasione, dal vivo e per un intero pomeriggio, fa la statua vivente, chitarra in mano e sguardo a spazzolare l’orizzonte; d’accordo è arte o forse non lo è, ma non è questo il punto. Il punto è che l’idea stessa del voyeurismo sepolcrale è una simpatica perversione che risale dalla notte dei tempi. Se il gioco del manichino che simulava un condannato fritto sulla sedia elettrica infiammò di polemiche, qualche mese fa, un Luna Park di Segrate e le prime pagine dei giornali (ma per lo strascico pubblicitario il gioco, seppur macabro, valeva la candela), questo trapasso autogestito e allestito dalla Triennale milanese è tutt’altro. « che il sapere di morire è un inevitabile chiamata a vivere...», commenta astuto e sbrigativo l’artista Pappalettera. E ci sta anche. Ma, forse, non è nemmeno quello. L’inscenare la propria morte è ambizione antica e trasgressione moderna al tempo stesso. il richiamo al mito greco dell’Ermes Psicopompo che nella classicità trascinava nell’Ade le anime dei morti che, poveretti, non potevano guardarsi indietro. il passaggio dei defunti Maya nell’aldilà, gettati nei cenotes pozzi senza fondo nelle viscere della terra, accompagnati per l’occasione da una mezza dozzina di cortigiani, vivi, che magari non erano del tutto entusiasti. -se vogliamo- un verso di Coleridge, una canzone di Nicolò Fabi (’Hai presente quando sogni di morire/ per vedere chi verrà al tuo funerale/ per capire chi ti ha voluto bene/e chi ti ha voluto male hai presente?”). il Fu Mattia Pascal che prima di cambiare identità in Adriano Meis si pregia d’osservare chi piange e chi ride dietro al suo loculo; è, infine, l’Huck Finn di Mark Twain che al presunto tumulo del proprio corpicino, schiantate le catene del vivere sociale, tira un sospiro di sollievo. La vita, sticavoli. La morte affascina, specie se è la nostra e ci sfila solamente accanto. E poi, c’è la bara. La bara stessa, dopo la sua desacralizzazione televisiva è ormai diventato un oggetto eversivo: qui ha fatto più, in tema di laicismo, un ciclo del telefilm Six Feet Under che cinquant’anni di editoriali di Eugenio Scalfari. La bara è oggi solo business, un investimento per il futuro come un altro. Non per nulla, giorni fa, tale Joe Scanlan, disegnò le ”Kläps”, bare a basso costo vendute a pezzi e montabili a casa con o senza l’optional della blindatura di zinco, nel segno del basso costo e dell’alto bricolage. Pare le abbia proposte all’Ikea, e che l’Ikea ci stia pensando. Morte per morte, da oggi, almeno, si smentisce il famoso pensiero spettinato di Stanislaw Lec, secondo cui la vita era ”come un sarcofago: splendidamente intarsiato dal di fuori, ma un po’ disadorno dal lato dell’utente”... Francesco Specchia