Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  settembre 23 Martedì calendario

Il Sole-24 Ore, martedì 23 settembre Con il sistema finanziario internazionale in ginocchio, da giorni gli addetti ai lavori si chiedono che cosa stessero facendo le autorità di vigilanza americane mentre il mercato veniva sistematicamente imbottito di carta straccia

Il Sole-24 Ore, martedì 23 settembre Con il sistema finanziario internazionale in ginocchio, da giorni gli addetti ai lavori si chiedono che cosa stessero facendo le autorità di vigilanza americane mentre il mercato veniva sistematicamente imbottito di carta straccia. In particolare la tanto rinomata Federal Reserve, ultimamente tanto attiva nel distribuire soldi a destra e manca per fermare l’emorragia, dov’è stata per tutti questi anni? Il resto di noi si pone invece una domanda più terra terra: di chi è la colpa? Il Sole 24 Ore ha voluto ricostruire le origini e il decorso di questa crisi nel tentativo di trovare risposta a questi interrogativi. E, laddove possibile, puntare il dito su chi ha specifiche responsabilità. La colpa originale Il primo nome che merita di essere fatto è quello di Phil Gramm, oggi principale consigliere economico di John McCain e ritenuto papabile per il ruolo di Segretario del Tesoro in un’eventuale amministrazione repubblicana. Dieci anni fa, Gramm era in Congresso dove occupava la poltrona di presidente della "Commissione banche, edilizia e affari urbani" del Senato. Non era mai stato un fan della regulation. E si adoperava come nessun altro politico perché il sistema finanziario Usa fosse il meno regolato possibile (negli anni la comunità finanziaria americana lo ha ringraziato con contributi elettorali per un totale di 4,6 milioni di dollari). La sua più grande vittoria politica la ottenne il 12 novembre 1999, quando venne ratificato dal presidente Clinton il Gramm-Leach-Bliley Act, la più radicale riforma bancaria dagli anni della Depressione. Commentando quella legge, il governatore della banca centrale Laurence Meyer parlò all’epoca di dispositivi "Fed-light". E cioè di una regolamentazione molto più soft di quella precedente. Pur confermando il ruolo che aveva la Federal Reserve di supervisore supremo sul sistema finanziario, la legge ne limitava significativamente il potere di controllo su soggetti come le banche di investimento e gli istituti di credito ipotecario i cui organi di controllo primari erano la Security Exchange Commission (la Consob americana) e i singoli Stati. Alcuni mesi dopo, Gramm riuscì a imporre il suo punto di vista anche sul mercato delle commodities, inserendo nella finanziaria del 2000 un emendamento di 262 pagine, il Commodity Futures Modernization Act, che deregolamentava il trading di derivati. In particolare il trading di Credit Default Swap, o Cds, contratti privati tra controparti che scommettono, l’una contro l’altra, sulla probabilità di default di un debitore. Seppur creati per fornire una protezione da un rischio, i Cds avevano un enorme potenziale speculativo perché potevano essere utilizzati anche per scommettere su un evento catastrofico altrui. In questo secondo scenario, un prodotto nato per ridurre il rischio speculativo poteva diventare un acceleratore di quel rischio e quindi un elemento di forte squilibrio e distorsione del mercato. Con l’emendamento di Gramm, il trading di Cds non avrebbe più avuto supervisione alcuna. Né da parte della Sec, né della Commodity Futures Trading Commissione, né dal Tesoro. Né tantomeno della Fed. Il credito facile E veniamo agli anni di George W. Bush. Il 18 giugno 2002, il successore di Clinton annunciò la propria intenzione di allargare il mercato dell’acquisto della prima casa a chi aveva redditi bassi e alle minoranze: «Diventare proprietari della propria casa è un modo di realizzare il sogno americano, e io voglio estendere il sogno a tutto il Paese», disse Bush. Scendendo nei dettagli, aggiunse: «La gente spesso vorrebbe comprare una casa, ma non ha soldi per l’anticipo. E a questo c’è rimedio... Altro problema: i contratti sono troppo complicati. La gente è scoraggiata da tutte quelle clausole. Ci sono troppe parole! Quindi faremo sì che venga semplificata la documentazione richiesta ... Infine, abbiamo bisogno di maggiori capitali per gli acquirenti a basso reddito. E sono oggi fiero di annunciare che Fannie Mae ha recepito questo bisogno ... e che anche Freddie Mac è disposto a fare la sua parte». Da parte sua, l’opposizione non aveva interesse a mettersi di traverso: i democratici non potevano infatti ostacolare una politica che dava accesso alla casa ai ceti meno abbienti. In quel momento, il sistema finanziario e l’economia americana stavano riprendendosi da due durissimi colpi: lo scoppio della bolla di internet che nel corso dei due anni precedenti aveva bruciato circa 3mila miliardi di dollari di valore in Borsa, e l’attacco dell’11 settembre. La scelta di Bush fu quella di assicurare la crescita economica sostenendo i consumi. «In un modello di bassi salari come era quello americano, il sostegno al consumo poteva venire solo in un modo: con il credito. Ed è proprio grazie alla politica creditizia di manica larga fatta dalla Fed fino al 2004 che si spiega buona parte del differenziale di crescita tra Usa ed Europa», dice un ex banchiere centrale europeo oggi al vertice di una grande banca. Il 2002 è anche l’anno dell’esplosione delle emissioni delle cosiddette asset-backed securities (Abs), cioè titoli garantiti da pacchetti di prodotti sottostanti, per lo più prestiti. In particolare parliamo delle cartolarizzazioni di mutui residenziali con le quali le banche commerciali cominciarono a cedere il controllo del credito immobiliare a Wall Street, dove però non c’era lo stesso grado e soprattutto la stessa qualità di sorveglianza. E dove, in seguito anche alla riforma di Gramm, la Fed non aveva compiti di vigilanza. «Per l’amministrazione Bush, le cartolarizzazioni rappresentavano una sorta di quadratura del cerchio, perché permettevano di aumentare il credito senza mettere a rischio le banche, le quali non avevano più incentivi per essere selettive con i debitori. I rischi dei mutui venivano infatti trasferiti agli investitori, inclusi quelli stranieri», aggiunge l’ex banchiere centrale. «Oltre a esternalizzare il rischio, in questo modo l’America riusciva anche a finanziare i propri consumi con i capitali delle banche e degli investitori stranieri». Il nuovo modo di fare banca A partire dal 2002, con il boom di securities di seconda o terza generazione, e cioè dei cosiddetti derivati sintetici, sempre più lontanamenti imparentati con i mutui originali, come le Collateralized debt obbligation (o Cdo) e i già citati Credit default swap, le cartolarizzazioni si affermarono come un nuovo modo di fare banca. «A fronte di strumenti finanziari e modelli di business nuovi - con le banche che originavano e distribuivano anziché originare e tenersi il rischio - il sistema di vigilanza Usa avrebbe dovuto adeguarsi, chiedere maggiori requisiti di capitale, creare un mercato ad hoc per gli Abs con requisiti/margini di liquidità minimi. Invece sono mancati screening periodici forti sul cosiddetto liquidity gap, i controlli sugli erogatori del credito e i cosiddetti stress test. In pratica non sono stati adottati segnali d’allarme», commenta il dirigente di un’agenzia di vigilanza europea. Per i primi anni tutto filò comunque liscio. Anzi, sembrava una sorta di magico circolo virtuoso in cui ognuno avrebbe solo guadagnato: i cittadini non abbienti compravano casa pur non avendone i mezzi, i broker che avevano piazzato i mutui guadagnavano più commissioni, i grossisti che rastrellavano mutui facevano più profitti, le case d’investimento che impacchettavano e cartolarizzavano - i cosiddetti arranger - incassavano fee da favola, i re-impacchettatori ne percepivano altre ancora maggiori e gli investitori si trovavano a disposizione prodotti specialistici molto redditizi su cui investire a seconda delle loro esigenze, con efficienze prima impensabili (per esempio, le società di assicurazione con polizze a 30 anni potevano comprarsi prodotti contenenti solo mutui dello stesso periodo). L’insostenibilità del modello In realtà, nel medio e lungo termine, il modello di business era insostenibile. Perché il pool di mutui di qualità era limitato, mentre Wall Street aveva un continuo bisogno di volumi sempre maggiori di materia prima - cioè nuovi mutui ipotecari. La fortissima domanda portò a una rapida riduzione della qualità della materia prima. Finché, a partire dal 2005, si cominciò ad alimentare la rete di rifornimento finanziario con mutui sempre più "tossici". «Il vintage, e cioè l’anzianità dei mutui sottostanti, è un indicatore di qualità. Le securities con vintage precedente al 2005 sono le migliori. Dopo il 2005 si trova invece paccottiglia di ogni genere», spiega l’ex banchiere centrale. A contribuire all’aumento della "tossicità" dei mutui fu anche un altro sviluppo nella politica di de-regolamentazione finanziaria di Bush. Il 7 gennaio 2004 l’Office of the Comptroller of the Currency, la branca del Dipartimento del Tesoro che governa le banche, aveva deciso che le banche multistatali sarebbero state esentate dalle normative statali contro il "credito predatorio". Già allora ci fu chi lo ritenne un invito all’abuso. E gli abusi prontamente arrivarono. Anche perché, proprio quell’anno, la Federal Reserve aveva cominciato a rialzare il tasso di sconto. Entrano in circolazione i mutui peggiori Cominciarono a diffondersi mutui con teaser rate, tassi-civetta che iniziano molto bassi ma poi esplodono, mutui low-doc oppure no-doc, la cui istruttoria era fatta con scarsa documentazione o addirittura senza alcuna documentazione (che passarono dal 28% del totale dei sub-prime nel 2001 al 50% nel 2006). Peggio ancora: arrivarono i mutui con l’opzione di non pagare né interessi né capitale per i primi due o tre anni. «Il cuore della vigilanza è il controllo dell’attività di credito, per assicurarsi che le banche facciano un corretto processo di affidamenti valutando le iniziative buone e dando credito a chi ha la possibilità di rimborsarlo. Invece su questo fronte, non venne fatto proprio niente», commenta l’ex banchiere centrale. Essendo latitante la vigilanza sul credito ipotecario (perché gli Stati non avevano una visione globale e la Fed era stata tenuta fuori), cominciarono a entrare in circolo pacchetti all’ingrosso con mutui a orologeria che raggiungevano l’80% del totale. Ma per gli arranger cambiava poco. L’importante era avere nuova materia prima da trasformare in prodotti lavorati da immettere nel mercato. C’è da dire che in quella lavorazione si cimentavano alcune delle migliori menti matematiche al mondo, che costruivano modelli di finanza quantitativa molto complessi con sofisticate miscele di diversificazione intese a ridurre il rischio. In più, non ci fu mai alcuna negligenza o disinformazione nella presentazione al mercato del prodotto: era detto apertamente che il sottostante era fatto di mutui subprime. A presentare come buoni quei lavorati, erano le più grandi agenzie di rating al mondo. «Il classico specchietto per le allodole era la tripla A delle agenzie di rating», spiega l’ex banchiere centrale. «E ad assegnarla non erano le case d’investimento. Erano le agenzie di rating». E qui il pensiero va subito al conflitto d’interessi intrinseco nel meccanismo di compensazione delle tre grandi agenzie: a pagare Moody’s, S&P e Fitch per il loro lavoro di rating erano infatti gli stessi arranger che dovevano piazzare il prodotto sul mercato. Ma occorre anche dire che quei rating non venivano assegnati al buio. Erano il frutto di modelli storico-matematici dai quali risultava estremamente improbabile che si verificasse una percentuale di insolvenza dei mutui sottostanti necessaria per intaccare l’investimento. Che in questo caso invece superava il 15% del totale su pacchetti sempre meticolosamente diversificati. Storicamente non era mai successo che si superasse quel tetto di insolvenza. Il problema era che, storicamente, le istruttorie sui mutui erano sempre state molto più selettive. «Venendo meno la qualità delle istruttorie sono saltati anche i modelli matematici», dice l’ex banchiere centrale. A fornire comunque un’ulteriore garanzia sulla qualità dei prodotti erano case d’investimento terze o società di assicurazione, come la Aig. In caso di default se ne sarebbero insomma fatte carico loro. «Il fatto che società come Aig non esitassero a sostenere quei prodotti, segnalava al mercato che il loro rischio era limitato», osserva uno dei maggiori avvocati d’affari americani che preferisce non essere citato. Il boom del 2006 Nel 2006, grazie anche a queste securities (che arrivarono a rappresentare il 33% del reddito totale, contro il 13% del 2000), le cinque grandi case d’investimento di Wall Street - Merrill Lynch, Bear Sterns, Lehman Brothers, Goldman Sachs e Morgan Stanley - dichiararono profitti per 130 miliardi di dollari. Altrettanto da record furono i compensi dei loro amministratori delegati. Solo per parlare delle banche ormai defunte: Stanley O’Neal, di Merrill Lynch, portò a casa 47,3 milioni di dollari, James Cayne, di Bear Sterns, 14,8 milioni e Richard Fuld, di Lehman, 10,9. «Io non ho mai avuto la sensazione che a Wall Street avessero subodorato che c’era qualcosa che non andava nei sottostanti. Erano troppo lontani dall’erogazione dei mutui subprime per accorgersene», aggiunge l’avvocato d’affari. «Sono convinto che le grandi case di investimento non sapessero di vendere immondizia». La nostra inchiesta ci porta a confutare questa valutazione. Non tanto perché chiunque avesse analizzato il mercato dei mutui avrebbe visto che dopo il 2004 i fondamentali non quadravano più: i dati economici dicevano che i redditi stavano scendendo mentre i tassi stavano aumentando, com’era quindi possibile che la generazione di nuovi mutui per la prima casa non desse segno di rallentamento? L’integrazione verticale A contraddire l’avvocato d’affari è piuttosto il grado di integrazione verticale che abbiamo scoperto esserci stato tra gli originator sul campo - cioè i fornitori dei mutui - e gli arranger a Wall Street. Nel corso degli anni del boom di queste cartolarizzazioni, tutte le case d’investimento si erano messe in pancia istituti specializzati proprio nella lavorazione all’ingrosso di mutui subprime. Lehman aveva comprato Harbourton Mortgage Investment Corp, BNC Mortgage Inc e Finance America LLC. Bear Sterns aveva preso EMC Mortgage Corp e Encore Credit Corp. Merrill Lynch aveva acquisito First Franklin Financial Corp, Nation Point e National City Home Loan Services. A spiegare i motivi di queste acquisizioni è l’analista finanziario Jeffrey Levine, di Milestone Advisors: «Primo, servivano a garantire una fonte di produzione di materia prima per le cartolarizzazioni. Secondo, a intascare anche i profitti dei fornitori. Terzo, ad avere market intelligence per lo sviluppo di nuovi prodotti». L’ironia è che nella stessa documentazione depositata presso la Sec, abbiamo trovato prove dell’integrazione tra originator e arranger. Nel bilancio annuale depositato nel 2006 da Fremont General, uno dei più grossi istituti di credito a orologeria del Massachusetts, si legge: «La società ha cercato di massimizzare i profitti... monitorando attentamente i requisiti richiesti dagli acquirenti istituzionali dei mutui, dalle agenzie di rating e dagli investitori. Ci siamo conseguentemente focalizzati su attività di produzione dei tipi di mutui che meglio rispondevano a quei requisiti». La conferma più esplicita è venuta da William Dalls, amministratore delegato di Ownit, il quale ha dichiarato al New York Times che gli investitori istituzionali - e Merrill Lynch in particolare - avevano specificatamente chiesto di offrire più mutui low-doc, dicendogli che se non lo avesse fatto avrebbe perso grosse opportunità di profitto. Continuando a salire nella catena di alimentazione, si nota che le banche di investimento erano anche proprietarie di Special Purpose Entity, cioè quei veicoli speciali registrati sotto forma di trust ai quali venivano conferiti pacchetti di mutui contro i quali emettere le obbligazioni. Il Sole 24 Ore ha appurato che, nel singolo mese del 2005, due veicoli di Lehman cartolarizzarono mutui residenziali per 1.268 milioni di dollari, un veicolo di Merrill Lynch cartolarizzò 1.358 milioni di dollari e uno di Bear Sterns altri 557 milioni. Insomma, con questo grado di integrazione verticale, non si può non attribuire specifiche e dirette responsabilità della crisi a Wall Street. Il crack La miccia fu l’impennata delle insolvenze e dei pignoramenti registrata nel corso del 2006. All’inizio del 2007 crollarono poi una ventina di istituti di credito specializzati in subprime. A quel punto si aggiunse l’effetto moltiplicatore delle scommesse al ribasso degli hedge fund. «Nei primi mesi del 2007 cominciammo a vedere i primi segnali preoccupanti», spiega l’ex banchiere centrale. «Nei nostri risk meeting interni notammo un maggior tasso di insolvenza e un allargamento degli spread. Allora iniziammo a mollare la posizione e uscire il più possibile dalle cartolarizzazioni». Dalle tesorerie delle grandi banche l’allarme si diffuse sul mercato, che smise di sottoscrivere. Il disimpegno degli investitori e il diffondersi dell’incertezza sull’entità e la distribuzione delle perdite nel sistema finanziario, provocò un’impennata della domanda di liquidità che fece schizzare ancora più in alto gli spread. Con il mercato bloccato, le cinque case d’investimento, e Merrill Lynch in particolare, si trovarono in portafoglio grosse quantità di semilavorati che dovevano essere ancora assemblati - prodotti di pessima qualità a fronte dei quali non potevano fare più funding. Tentarono di ricorrere al mercato interbancario per rifinanziare gli attivi immobilizzati, ma invano. Il contagio ha poi raggiunto il mercato dei Credit default swaps, nel frattempo schizzati a 62mila miliardi di dollari di valore nozionale (contro i 144 miliardi di 10 anni fa). E chi era uno dei più attivi player in questo mercato? Aig, che tra l’altro era anche garante di molte securities di Lehman. E adesso? Quanto è stato intaccato il ruolo di riferimento delle autorità americane per il resto del mondo? «La reputazione del sistema di vigilanza ne ha sicuramente risentito, soprattutto perché gli americani sono sempre stati all’avanguardia», conclude il dirigente dell’agenzia di vigilanza europea. «Con questa crisi la loro credibilità si è a mio parere dimezzata». Claudio Gatti