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 2008  settembre 25 Giovedì calendario

Accadde poco più di un anno fa. In un’intervista dedicata alla politica estera, Barack Obama disse che se da presidente avesse avuto informazioni d’intelligence affidabili e accurate, non avrebbe esitato a lanciare attacchi mirati contro le bande militari di Al Qaeda nascoste in territorio pachistano, senza chiedere il permesso al governo di Islamabad

Accadde poco più di un anno fa. In un’intervista dedicata alla politica estera, Barack Obama disse che se da presidente avesse avuto informazioni d’intelligence affidabili e accurate, non avrebbe esitato a lanciare attacchi mirati contro le bande militari di Al Qaeda nascoste in territorio pachistano, senza chiedere il permesso al governo di Islamabad. Successe l’inferno. Hillary Clinton, ancora favorita a vincere la nomination democratica per diritto divino, bollò l’idea come pericoloso avventurismo. John McCain, allora in bassa fortuna fra i candidati repubblicani, irrise alla sua inesperienza. Perfino i consiglieri di Obama storsero il naso, tentando di convincerlo a far marcia indietro. Lui fu ostinato. Da allora, quella posizione è diventata un punto forte del suo nuovo approccio in politica estera, accanto all’idea che bisogna trattare senza precondizioni anche con l’Iran. «Non si deve negoziare per paura, ma non si deve aver paura di negoziare», dice Obama, citando John Kennedy. Poche settimane fa, si è appreso che il presidente Bush ha formalmente autorizzato incursioni senza permesso in territorio pachistano, contro le bande terroristiche islamiche. Esattamente quello che dovremmo aspettarci, ipse dixit, da un’eventuale amministrazione Obama. Una coincidenza casuale? Non esattamente. La campagna di Obama insiste nel dire che l’elezione di John McCain alla Casa Bianca significherebbe dare un terzo mandato a George Bush. Forse. Dipende dai campi. Ma su tutti o quasi i principali dossier di politica estera, l’evidenza incontestabile è che nell’ultimo anno e mezzo il presidente in carica abbia seguito strategie e lanciato azioni molto, molto simili a quelle teorizzate dal candidato democratico. Alla vigilia del primo duello dedicato alla politica estera tra Obama e McCain, che questi ora vorrebbe rinviare, il tema della continuità con Bush finisce quindi per riguardare entrambi i candidati. E soprattutto pone in una luce del tutto diversa il giudizio complessivo sugli ultimi otto anni, che all’evidenza non sono trascorsi invano, rivelando un realismo e una flessibilità insospettati in quella che nel giudizio convenzionale, viene ancora considerata un’amministrazione ideologica, unilateralista, guerrafondaia. I fatti degli ultimi 15 mesi raccontano sia pure in parte un’altra storia. La Casa Bianca che additava l’asse del male, ha aperto trattative diplomatiche con la Corea del Nord e una linea di dialogo con l’Iran. Ha provato a rilanciare il processo di pace tra Israele e Palestina, che aveva completamente trascurato durante il primo mandato. Ha spostato il focus dalla guerra in Iraq a quella in Afghanistan, individuando un «orizzonte temporale» per il ritiro dalla Mesopotamia e annunciando l’invio di nuove forze a Kabul. Ha rivalutato, non ultimo nel discorso di Bush martedì all’Onu, il ruolo delle organizzazioni internazionali, che una volta bollava come «musei delle cere». Al di là dei toni, ha evitato ogni approccio troppo duro nei confronti della Russia (come invece predica McCain, che ne chiede l’espulsione dal G8) sul caso della Georgia, optando invece per l’aiuto economico a Tbilisi, come chiedeva Obama. Prima di dedicare un discorso molto critico, ma privo di conseguenze pratiche, ai rapporti con Mosca, Condoleezza Rice ha perfino telefonato al suo omologo russo, Sergei Lavrov, per avvertirlo. Si potrà obiettare che la svolta non venga ammessa o teorizzata. Che la retorica rimanga identica e che soprattutto il danno d’immagine e di prestigio internazionale, accumulato negli anni in cui Rumsfeld e Cheney dettavano la linea, non sia più riparabile da questo presidente. Come che sia, il prodotto non cambia: lungi dal consegnare al successore un Paese in litigio col mondo, George W. Bush, fosse pur malgré lui, gli lascia un’America in cerca d’autore, tesa verso una leadership condivisa. Alla luce della svolta interventista, dettata dai torbidi di Wall Street e dalla crisi economica, sarebbe forte la tentazione di credere a una conversione ideologica dell’amministrazione. Quella intravista con orrore dal senatore repubblicano del Kentucky, Jim Bunning, che ha bollato il piano di salvataggio per le banche come «l’introduzione del socialismo negli Usa». Non è così. L’evoluzione in politica estera e l’uso dei più classici teoremi keynesiani in economia, dopo anni di retorica e pratica liberista e anti-tasse, segnalano soprattutto un Dna americano: il pragmatismo, capace di trascendere ogni linea ideologica. Fosse pure quella manichea e ultra-conservatrice di George W, l’ex guerriero.