Francesco Ramella, La Stampa 24/9/2008, pagina 31, 24 settembre 2008
Nei giorni scorsi è morta una ragazza di vent’anni per abuso di sostanze stupefacenti. Si chiamava Eleonora ed aveva partecipato ad un rave party nei dintorni di Siena
Nei giorni scorsi è morta una ragazza di vent’anni per abuso di sostanze stupefacenti. Si chiamava Eleonora ed aveva partecipato ad un rave party nei dintorni di Siena. Si tratta solamente dell’ultimo caso di una lunga serie. A luglio era toccato a Simone, venticinque anni, ad Ostia. Pochi giorni prima era stata la volta di Nicole, al lido di Venezia. Aveva sedici anni. Diversi commentatori hanno chiesto di mettere al bando questo tipo di raduni musicali. Il cui obiettivo principale è quello - come dice chi li organizza - di liberarsi da regole e convenzioni sociali. Lasciandosi andare completamente, ascoltando musica ad alto volume e (s)ballando. Magari con l’aiuto di alcol e droghe. Il termine inglese «rave», del resto, significa «delirio». Forse questi raduni andrebbero regolati, come hanno fatto in Francia. Ma ciò non aiuterebbe a prevenire morti come quelle di Eleonora. Le «nuove» droghe non circolano solo nei rave party. Lo scorso aprile, Kristel (19 anni) è stata uccisa da pasticche prese in discoteca. Una recente indagine europea ci dice che queste sostanze si trovano un po’ ovunque. Vicino ai nostri ragazzi. Il 46% dei quali racconta che, volendo, non avrebbe difficoltà a procurarsi della cocaina, il 45% dell’ecstasy e il 31% dell’eroina (tutti valori molto al di sopra della media europea, tra i 7 e i 14 punti). Sono dati suffragati dalle indagini internazionali sul traffico degli stupefacenti. Secondo il World Drug Report delle Nazioni Unite (2007), infatti, l’Italia rappresenta (insieme con la Gran Bretagna) uno dei due mercati più importanti dell’Europa occidentale per lo smercio di eroina ed oppiacei. Il terzo per la cocaina. L’utilizzo di queste sostanze non riguarda solamente i giovani. Ma è soprattutto a quell’età che si fanno le prime esperienze. Nella Relazione annuale sullo stato delle tossicodipendenze, presentata al Parlamento lo scorso giugno, si legge che i tre quarti di coloro che hanno provato l’eroina lo hanno fatto prima dei vent’anni. Nel caso della cocaina la percentuale scende leggermente ma rimane molto elevata: il 55%. In effetti l’uso di droghe, per lo più esplorativo, interessa quote significative di adolescenti: il 6,3% degli studenti italiani tra i 15 e i 19 anni ha provato almeno una volta la cocaina. Il 4,7% una sostanza stimolante (anfetamine, ecstasy ecc.), il 2,2% l’eroina. Ha fatto bene, quindi, l’Italia ad imboccare - con la Legge Fini-Giovanardi del 2006 - una strada di maggiore severità nei confronti dei consumatori? Se l’azione di contrasto al traffico degli stupefacenti è importante, risulta però del tutto insufficiente se non si accompagna ad un’adeguata azione preventiva e informativa nei confronti dei giovani. Sotto questo profilo la criminalizzazione del consumo di stupefacenti può avere effetti-contro intuitivi, rendendo più difficile il dialogo con i ragazzi «tentati» da questi esperimenti. Un tale paradosso viene messo in luce dalle inchieste citate in precedenza, da cui emerge un deficit di comunicazione con gli adulti che suscita preoccupazione. Quasi il 90% degli italiani esprime un profondo biasimo verso il consumo di droga. Ma tanto più elevata è nel nostro Paese la condanna sociale, tanto meno sembra possibile parlarne sia in privato che in pubblico. Rispetto agli altri giovani europei, infatti, quelli italiani ottengono meno ragguagli in proposito tramite la famiglia, i mass media o altri operatori specializzati. Ma ciò che è più grave è che una quota irrisoria si rivolgerebbe al «mondo degli adulti» per informarsi su questo argomento. Siamo infatti sistematicamente agli ultimi posti tra i Paesi dell’Unione per quanto riguarda la «preferenza» accordata dai giovani non solo alle fonti ufficiali d’informazione (scuola, operatori, ecc.) ma anche alla famiglia. Solamente il 19% dei nostri ragazzi - contro il 27% di quelli europei - discuterebbe con i genitori di tali questioni. Un dato su cui riflettere. Abbiamo innalzato un «muro» di disapprovazione sociale che anziché difendere i più vulnerabili, finisce per lasciarli soli. A fronteggiare una situazione in cui è più facile procurarsi droghe che parlarne. Francesco Ramella