Varie, 24 settembre 2008
GERONZI
Cesare, Marino (Roma) 15 febbraio 1935. Banchiere. Presidente di Mediobanca. Considerato uno degli uomini più potenti d’Italia, è riuscito a scalare tutte le vette della finanza italiana nonostante due rinvii a giudizio e una sentenza di condanna in primo grado. Marco Panara: «Cesare Geronzi è nato per comandare e non è ancora nato invece, o non si è palesato, chi riuscirà ad impedirglielo. Fino a questo punto non l’ hanno fermato neanche l’ età, i conti aperti con la giustizia o le regole sulla onorabilità di chi siede nel consiglio di amministrazione di una banca, a lungo promesse dalle autorità competenti e mai venute alla luce» • Famiglia «dignitosamente povera» ai Castelli Romani, entra nel 1960 in Banca d’Italia («un saio che ti porti sempre addosso»). Il governatore Guido Carli lo manda poi in Svizzera a fare pratica sul mercato delle valute e quando torna lo mette a capo dell’Ufficio italiano cambi, il fixing da cui si governa la difesa della lira dalle speculazioni internazionali (Florio Fiorini, che all’epoca guidava un team di speculatori sulle valute, ogni tanto riceveva una telefonata di Geronzi – da loro soprannominato il dottor Koch – che gli diceva: «State esagerando» e Fiorini e i suoi prendevano subito qualche giorno di vacanza) • «Quando Guido Carli si dimise da governatore (1975) e il dottor Koch ebbe la definitiva certezza che i suoi amici Antonio Fazio e Lamberto Dini avrebbero fatto più carriera di lui, se ne andò con Rinaldo Orsola al Banco di Napoli» (Alberto Statera). «Dal Banco di Napoli il direttore generale della Banca d’Italia Mario Ercolani lo indirizzò alla Cassa di Risparmio di Roma di Remo Cacciafesta. Da dove è cominciata la sua scalata» (Sergio Rizzo) • Da quel momento la carriera di Geronzi si sviluppa in due sensi: in verticale e in orizzontale. In verticale, perché alla testa della Cassa di Risparmio cresce attraverso un’impressionante serie di acquisizioni e fusioni, rese possibili dal potere politico e al termine di ciascuna delle quali lui è sempre il numero uno di una realtà sempre più grande. In orizzontale, perché Geronzi, finanziando generosamente i soggetti più diversi, stabilisce una rete di complicità e alleanze in tutte le direzioni, partiti politici, grandi o pseudo grandi imprenditori, squadre di calcio (le squadre di calcio sono il tramite per formidabili connessioni sociali) • Raccontiamo l’ascesa verticale. Sergio Rizzo: «La Cassa di Risparmio di Roma era una banca pubblica, piccola e neanche messa troppo bene. Fra i soci dell’istituto c’era tutta la nobiltà papalina, ma anche politici e imprenditori legati alla politica. Un salotto forse un po’ polveroso, che aveva il suo principale punto di riferimento nel leader della Dc romana, Giulio Andreotti. Ma che ben utilizzato poteva diventare un formidabile strumento di potere. E Geronzi (che allora qualcuno considerava appoggiato dai socialdemocratici) accettò di buon grado di diventare il simbolo di quel mondo andreottiano, punta di diamante di una sorprendente espansione nel mondo della finanza. Il sistema bancario era quasi tutto in mani pubbliche e l’unico modo per crescere era ovviamente comprare banche pubbliche, cioè controllate dalla politica. Il primo colpo fu l’acquisizione del Banco di Santo spirito dall’Iri di Romano Prodi • Ecco l’operazione Santo Spirito nel racconto di Giancarlo Perna: «Nell’89, agli sgoccioli della prima presidenza, Prodi vende a prezzo stracciato il Banco di Santo Spirito alla Cassa di Risparmio di Roma. Una decisione imperiale, senza gara al miglior offerente e neanche uno straccio di perizia, denunciò scandalizzato Pietro Armani, vicepresidente dell’Iri. Ma era quanto desiderava Andreotti, d’accordo con l’amico Cesare Geronzi che, direttore generale della Cassa, diventa, con l’acquisizione, anche amministratore delegato del Santo Spirito. Quando poi le due banche, completando il piano segreto, finiscono nel Banco di Roma, Geronzi presiede l’uno e l’altra. Andreotti è appagato e Romano rinsalda un antico rapporto» • Seguì «l’assorbimento del Banco di Roma dall’Iri di Franco Nobili, manager legatissimo ad Andreotti, con un’incredibile operazione a costo zero, ”intorno alla quale”, commentò il futuro commissario della Consob Salvatore Bragantini, ”i registi dell’operazione hanno saputo creare un insolito consenso politico”. Mica tanto insolito, se si considera che quell’operazione aveva la targa del Caf, l’asse Craxi-Andreotti-Forlani che allora governava l’Italia. Il potere di Geronzi cresceva comprensibilmente incontrastato» (Rizzo) • E poi: «L’ambizione di Geronzi è sempre stata quella di trasformarla, la sua banca. A costo di seminare nel fango. A metà degli anni 90 sfilò allo scalcagnato conte Auletta la disastrata Bna. A metà del 2002 (dopo avere acquistato anche Mediocredito centra e Fineco – ndr) ha ”ingoiato” Bipop e Banca di Sicilia, piene di sofferenze e buchi di bilancio, e ha dato vita finalmente al colosso bancario che aveva sempre sognato. Con Capitalia Geronzi è riuscito a trasferire Piazzetta Cuccia a Via del Corso» (Massimo Giannini) • Lo sviluppo in senso orizzontale, cioè la costruzione in tutte le direzioni possibili di una fitta rete di relazioni, comincia già ai tempi della Banca di Roma. Ancora Statera: «Di equilibrismi il dottor Koch ha vissuto tutta la vita. Nato con la politica da banchiera pubblico, ha prosperato con la politica da banchiera privato. Prima o seconda repubblica per lui ”pari son”: da An alla Quercia, dagli amici del Manifesto a Forza Italia». Rizzo. «Siccome il denaro non ha odore, tutti (o quasi) i partiti si abbeveravano alla Banca di Roma. Il Psi, la dc, i liberali e i socialdemocratici. Uno snodo centrale fu quando Geronzi intuì che Silvio Berlusconi e le sue reti televisive avevano un futuro: mentre le altre banche gli voltarono le spalle, il banchiere romano intervenne a fianco del leader di Forza Italia. Ma anche il Pds, che nel 97 arrivò ad essere esposto con l’istituto di Geronzi per 203 miliardi di lire. Soprattutto, quel rubinetto alimentava molti imprenditori considerati parte integrante di quel mondo nel quale la politica c’entra sempre qualcosa, come Domenico Bonifiaci, Giuseppe Ciarrapico, Sergio Cragnotti. Fino all’inevitabile coinvolgimento nell’affare del calcio, che ha portato Capitalia ad essere addirittura il primo azionista della Lazio, In un intreccio di rapporti, anche personali, sempre più fitto, che la fine politica di Andreotti non ha affatto scalfito e che negli anni successivi ha conosciuto nuovi sviluppi» • Geronzi non ha esitato, per favorire le sue relazioni, a coinvolgere i familiari: la moglie Giuliana Iozzi era in società nel settore farmaceutico con Piergiacomo Jucci e Eugenia Cataldi, rispettivamente figlio e moglie di Roberto Jucci, ex comandante dei carabinieri già responsabile della sicurezza di Andreotti. La figlia Benedetta è stata messa a fianco di Franco Carraro a curare il marketing della Federazione Gioco Calcio; l’altra figlia Chiara era socia della Gea, la società di Alessandro Moggi all’origine dello scandalo noto come ”Calciopoli” (quello che ha portato alla retrocessione della Juventus e all’inibizione di Moggi, Giraudo, Della Valle). A un certo punto, tramite la banca, Geronzi aveva in mano i destini di sette squadre, e tra queste la Roma, la Lazio, la Fiorentina, il Perugia • Punto di rottura, nella carriera di Geronzi, sono i crack Cirio e Parmalat. Due storie di fallimento intrecciate che trovano in Capitalia uno dei più forti punti d’unione. Nel primo caso la banca romana, per anni compagna di Sergio Cragnotti in tutte le sue avventure finanziarie, ha continuato a vendere bond Cirio ai propri clienti anche mentre l’azienda era al collasso. Geronzi sapeva che quei prestiti non sarebbero mai potuti essere rimborsati e scaricava sui clienti il costo del fallimento dell’azienda debitrice, sostiene l’accusa. A marzo 2008 è iniziato il processo che lo vede imputato per frode ai risparmiatori. Per la Parmalat le accuse sono più gravi: Geronzi è imputato di bancarotta fraudolenta e usura per il filone del processo che riguarda la vendita delle acque minerali Ciappazzi e di estorsione semplice e concorso in bancarotta societaria per la cessione di Eurolat. La dinamica, nei due casi, è più o meno la stessa: Capitalia, nella tesi dei pm, costringeva Callisto Tanzi a comprare a carissimo prezzo aziende gravemente indebitate con Capitalia. La Ciappazzi era una ditta di acque minerali priva della licenza di imbottigliare. Un caso palesemente disperato. Era controllata da Giuseppe Ciarrapico e oberata di debiti con Capitalia. Per riavere indietro i suoi crediti, Geronzi avrebbe costretto Tanzi a comprarla. Non solo, Parmalat avrebbe trovato i denari per l’acquisto emettendo un bond che la banca avrebbe piazzato sul mercato, scaricando quindi la sofferenza sui risparmiatori e lucrando fortemente sulle commissioni e sugli interessi applicati ai denari anticipati. Anche Eurolat, società del gruppo Cirio, era passata a Parmalat su pressione di Geronzi, che intendeva riottenere in questo caso parte dei suoi crediti nei confronti di Cragnotti. L’azienda, che controllava la Centrale del Latte di Roma, fatturava 155 milioni di euro all’anno ed era in rosso cronico, passò a Colecchio per 420 milioni. Una cifra fuori mercato. «Il nostro più che un acquisto spontaneo fu un acquisto ”spintaneo” − ha raccontato Tanzi ai giudici − In parole povere non potevamo rifiutarci di venire incontro alle richieste della Banca di Roma». Fausto Tonna, ex direttore finanziario di Parmalat, è stato più esplicito: «L’ accordo per Eurolat venne raggiunto dopo un incontro con Geronzi che disse che dovevamo comprare a quel prezzo altrimenti avrebbero chiuso gli affidamenti che allora ammontavano a 150-200 milioni di euro. Noi sostenemmo che l’ azienda non valeva 420 milioni ma almeno 150 in meno. Geronzi fece capire che dovevamo comperarla per forza e noi decidemmo di accettare» • Geronzi s’è difeso dicendo che di queste pratiche (messe in atto da tutte le altre banche che avevano rapporti con Parmalat e specialmente dalle banche estere) lui non sapeva nulla: erano faccende di ordinaria amministrazione di cui si occupavano i suoi funzionari. E tuttavia: «Senza la complicità interessata di Capitalia, Parmalat sarebbe fallita almeno un anno prima, con circa tre miliardi di passivo in meno» (Il procuratore della Repubblica Gerardo La Guardia). Ed Eugenio Favale, dal luglio 2002 numero 1 di Large Corporate di Capitalia, si era accorto che nonostante le ingenti liquidità indicate a bilancio, i fidi Parmalat risultavano costantemente sfruttati «a palla». Per saperne di più aveva chiesto chiarimenti al collega Andrea Del Moretto, il quale aveva scoperto che i conti erano grossolanamente truccati, a partire dalla quantità di obbligazioni in circolazione. Luca Fazzo: «Ma Del Moretto non venne ascoltato. E per dodici, interminabili, mesi a Tanzi venne concesso di continuare a vendere ai risparmiatori bond spazzatura» • Molto severo è il giudizio del gip di Parma, che ha disposto per Geronzi la sospensione da tutte le cariche per due mesi. Ma ancora più severe sono le parole del tribunale di Bologna, che nel respingere il ricorso presentato da Geronzi definisce il banchiere «un uomo che sfruttando una incommensurabile potenza ha reiteratamente commesso crimini di gravità inaudita mostrando la più totale insensibilità nei confronti di chi ne sarebbe stato la vittima più indifesa (il popolo dei risparmiatori) e non facendosi scrupolo di anteporre personale sete di potere ai canoni di trasparenza e correttezza che devono guidare l’operato di strutture bancarie che godono della fiducia della nazione intera». Il processo è iniziato nel marzo 20008 • Geronzi è coinvolto anche nel fallimento di Italcase-Bagaglino, holding immobiliare turistico-alberghiera inghiottita nel novembre 2000 da un buco di 600 milioni di euro. In questo processo ha già ricevuto una condanna in primo grado da 1 anno e 8 mesi, l’inabilità all’impresa commerciale e agli incarichi direttivi per il reato di bancarotta semplice (pene sospese perché disposte in primo grado) e un’assoluzione da quello di bancarotta preferenziale. Anche in questo caso si tratta della storia di un’azienda in drammatica crisi e di un Geronzi, tramite la Banca di Roma, che ne prolunga artificialmente il collasso, stavolta per trasformare il suo istituto in creditore privilegiato e consolidare le ipoteche a scapito degli altri creditori • Inevitabilmente le vicende giudiziarie si intrecciano con la carriera del banchiere. Nel pieno inizio della fase delle grandi fusioni delle banche italiane, a cavallo tra il 2006 e il 2007, il presidente di Capitalia viene sospeso due volte dalla sua carica, prima per il rinvio a giudizio per Ciappazzi e poi per la condanna per Italcase. Una situazione che lo indebolisce proprio mentre trattava con Giovanni Bazoli, presidente di Banca Intesa, la fusione dei due istituti. Sembra che i colloqui fossero in uno stato avanzato, vicini alla conclusione, quando l’amministratore delegato di Capitalia, Matteo Arpe, blocca l’operazione acquistando il 2 per cento di Intesa. E sempre mentre il presidente è in esilio per le sue vicende giudiziarie, Arpe tenta di convincere i soci a confermarne la sospensione e si mette in contatto con Citigroup per organizzare un’Offerta di pubblico acquisto su Abn Amro (il primo socio di Capitalia, con l’8,6 per cento del capitale). Geronzi, riconfermato alla presidenza dopo la sospensione, prima corre ai ripari, tirando dentro la spagnola Santander e l’ investitore francese Vincent Bolloré come azionisti, in modo da potere difendere l’istituto da eventuali assalti indesiderati. Poi va all’attacco e chiede al consiglio d’amministrazione la revoca delle deleghe di Arpe, colpevole di avere tramato alle sue spalle e di avere criticato l’ingresso dei nuovi soci («Francia o Spagna, purché se magna» aveva scherzato l’amministratore delegato all’ingresso nel capitale di Santander e Bolloré). Chiamato per un incontro privato con Geronzi, Arpe riesce a non essere mandato via all’improvviso: accetta di scrivere una lettera di scuse al presidente e agli azionisti. «Che sia l’ultima volta» risponde Geronzi. Ristabilite le gerarchie interne, il banchiere dei Castelli riprende il controllo della sua banca, che ha sempre più bisogno di un socio forte. Anche perché, tra febbraio e aprile 2007, gli inglesi di Barclays preparano un’Opa su Abn Amro, ed è evidente che, dopo l’acquisto del suo azionista più forte, Capitalia può essere certa di essere la successiva preda degli inglesi. Così Geronzi procede in tutta fretta a una fusione con la Unicredit di Alessandro Profumo. Una fusione che è in realtà un’incorporazione di Capitalia da parte della più grande Unicredit. A quel punto il banchiere, che lascia la presidenza dell’istituto con una buonuscita da 20 milioni di euro di «premio alla carriera», può puntare a un suo vecchio obiettivo: la poltrona di comando di Mediobanca, ormai sgombra dai più tradizionali nemici dopo la morte di Enrico Cuccia e del suo delfino Vincenzo Maranghi • Eugenio Scalfari: «Al momento della fusione del Banco di Roma con Unicredit si pose il problema di trovare una posizione adeguata per Cesare Geronzi che altrimenti sarebbe rimasto disoccupato. Geronzi non è uno che vada in pensione; si può tranquillamente scommettere che morirà (spero il più tardi possibile) lavorando. Banco di Roma e Unicredit possedevano circa il 9 per cento ciascuno del capitale di Mediobanca, in totale il 18 per cento, cioè la maggioranza assoluta nel patto di sindacato. A quel punto Profumo decise di vendere metà della partecipazione restando con il 9 per cento. Decise anche di affidare a Geronzi la presidenza dell’ istituto ma per non essere troppo generoso optò per una "governance" duale, dando all’ ex presidente del Banco di Roma la guida del consiglio di sorveglianza e insediando alla testa del consiglio di gestione il capo del management di piazzetta Cuccia, Nagel. Un equilibrio perfetto, almeno sulla carta. Ma non era pensabile che Geronzi si contentasse a lungo di fare il padre nobile. Passato poco più di un anno è entrato infatti in agitazione chiedendo che la governance di Mediobanca tornasse dal sistema duale a quello "monale" e rivendicandone la presidenza operativa. Profumo non è d’ accordo ma è molto prudente, anche lui ha i suoi guai e non da poco. Nagel non è d’ accordo neppure lui, ma Geronzi è in maggioranza nel sindacato e nell’ assemblea degli azionisti. Dalla sua parte c’ è Mediolanum, Ligresti, Generali, i francesi, insomma il grosso degli azionisti. Soprattutto ha l’ appoggio politico di Berlusconi. Ma Nagel e Profumo sono tuttora contrari. Se decideranno di battersi possono raggruppare un terzo dei voti nel sindacato azionario: una minoranza di blocco che riproporrebbe una conduzione duale all’ interno di una "governance" unificata. Infine c’ è un’ ultima incognita. Geronzi è stato rinviato a giudizio e addirittura condannato in primo grado per alcuni reati di cospicua gravità in materia finanziaria e bancaria. In tempi normali tutto ciò avrebbe determinato automaticamente le dimissioni del rappresentante legale di una banca e in tal senso esiste da tempo una circolare di indirizzo della Banca d’ Italia. Ma oggi, lo sappiamo, non siamo in tempi normali. Mi domando però se questa posizione resterà ferma anche nel momento in cui il processo avrà inizio. Ogni previsione è azzardata ma una cosa è certa: la scelta dipenderà in larga misura da Draghi. Ѐ una partita cui sarà molto interessante assistere per raccontarla a dovere • La partita è stata interessante davvero, a tratti i toni si sono alzati. 13 mesi dopo la dichiarazione di avvio del duale Geronzi fa sapere che: «Quel sistema è adatto a una cogestione, non a caso ha origine nella tradizione sindacale tedesca. Non a una banca. E là dove funziona, penso a Intesa San Paolo, è perché vi sono persone di qualità ed educate». L’accusa è ben poco implicita: a sedere nel cda di Piazzetta Cuccia ci sono persone maleducate e non di qualità. E su Profumo: «Io, quando ci sono momenti difficili mi confronto, dialogo, magari litigo, ma ragiono. Non dico, come nei casi Rcs e Telecom "non mi interessa nulla di questioni di mero potere", e poi salto fuori d’ incanto, una domenica luglio perché ho cambiato idea…». L’esito dello scontro è una vittoria di Geronzi, che il 18 settembre 2008 ottiene l’addio al duale e la nomina a presidente del consiglio di amministrazione unificato di Piazzetta Cuccia. Marco Panara: «Ѐ uno di quegli uomini tenaci che sanno giocare partite lunghe, sanno calibrare le mosse, dosare i segnali, preparare il terreno. Alla fine, delle partite che ha giocato, è difficile trovare nella memoria qualcuna, importante, che abbia perso. Chiuso il suo ciclo a Capitalia ha deciso di andare a Mediobanca, libera ormai dai grandi vecchi Cuccia e Maranghi. Nessuno, a Milano, riteneva possibile che il terzo grande vecchio diventasse lui, che interpretava con tutto il suo modo di essere la quintessenza della romanità, e invece lo è diventato. E chi pensava che sarebbe andato lì a fare tappezzeria, dimenticandosi il suo destino, la sua storia e il suo talento, ha sbagliato. Di grosso» • Nemmeno Mediobanca sembra essere destinata ad essere il punto di arrivo di Geronzi. La prossima tappa del banchiere romano, processi permettendo, è la poltrona oggi occupata da Antoine Bernheim, l’ottuagenario presidente di Generali, il cui mandato scade ad aprile del 2010. Generali Giannini: «Come banchiere, con una sentenza di condanna in primo grado che presto potrebbe passare in giudicato, avrebbe il destino segnato per ragioni di ”onorabilità”. Come assicuratore, invece, potrebbe cavarsela ancora una volta senza troppi danni».