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 2008  settembre 24 Mercoledì calendario

Alan Greenspan, da gran maestro del tempismo qual è, la settimana scorsa descriveva l’attuale crisi finanziaria come «un evento che capita probabilmente una sola volta in un secolo»

Alan Greenspan, da gran maestro del tempismo qual è, la settimana scorsa descriveva l’attuale crisi finanziaria come «un evento che capita probabilmente una sola volta in un secolo». Anche se la Grande Depressione ebbe inizio meno di ottant’anni fa, oggi viviamo in un nuovo secolo. Se la presente crisi passerà alla storia come il peggiore dei terremoti finanziari che il mondo dovrà affrontare tra ora e il 2099, resta il fatto straordinario che nulla di paragonabile alla Grande Depressione si sia verificato dagli anni Trenta ad oggi. Negli avvenimenti del mese, infatti, si è avvertita un’aria da anni Trenta. La nazionalizzazione di Fannie Mae (che fu creata nell’era della Grande Depressione) e Freddie Mac – oggi «controllate» dal governo ”, la bancarotta della Lehman Brothers (la cui storia risale ancor più addietro), l’acquisizione della Merrill Lynch da parte della Bank of America e il salvataggio di Aig, il più grande assicuratore del Paese, ancora grazie al governo americano: ciascuno di questi eventi, preso singolarmente, negli anni Ottanta e Novanta avrebbe innescato una crisi finanziaria. A Ken Lewis, amministratore delegato della Bank of America, è stato chiesto la settimana scorsa quante delle 8500 banche nazionali potranno sopravvivere alla stretta creditizia. «Circa la metà», è stata la sua risposta. Il fallimento di oltre 4000 banche ci farebbe sicuramente rivivere una nuova Depressione (anche se, per la precisione, il numero complessivo di banche nazionali e statali che scomparvero tra il 1928 e il 1933 fu di oltre undicimila). Si dà il caso però che quella che stiamo vivendo attualmente non è una vera e propria recessione – o almeno, non ancora. Dall’inizio alla fine, la Federal Reserve ha tentato di attuare strategie opposte a quelle della Depressione: ha combattuto la contrazione del credito tagliando i tassi e convogliando denaro nel sistema bancario, estendendo alle banche di investimento le facilitazioni che fino a quel momento erano prerogativa delle banche commerciali e allentando le regole sulle garanzie. Oltre a tutto ciò, Hank Paulson, segretario al Tesoro, venerdì scorso ha proposto la creazione di un istituto che utilizzerebbe denaro pubblico per acquistare dai gruppi finanziari gli asset traballanti, ricollegati ai mutui. Quest’ultima misura deve molto di più agli anni Ottanta che ai Trenta. Il modello è la Resolution Trust Corporation, fondata nel 1989 per acquistare prestiti spazzatura da istituti di risparmio e prestito insolventi, ovvero dai prestatori locali di denaro per i mutui ipotecari che hanno scatenato l’ultima grande crisi del mercato immobiliare americano. Il costo finale della crisi del risparmio e del prestito tra il 1986 e il 1995 è stato di 153 miliardi di dollari, oppure il 3 per cento circa del Pil del 1989, di cui i contribuenti sono stati chiamati a pagare 124 miliardi. Ma stavolta, visto il volume assai più consistente e la complessità degli asset in pericolo e la difficoltà molto più elevata nel valutarli, la Rtc si prepara a presentare un conto ben più salato, equivalente addirittura al 7 percento del Pil. Denaro a buon mercato e finanza del deficit sono state le tecniche raccomandate da Keynes e da altri negli anni Trenta per risolvere i problemi della Depressione. Questi stessi strumenti sono stati però usati e abusati negli anni Sessanta e Settanta, quando in realtà non c’era nessuna recessione, e hanno prodotto alla fine un’inflazione disastrosa. Tali tecniche saranno in grado di funzionare anche oggi? Finora, esse si sono limitate a produrre qualcosa che potrebbe essere definita come Grande Repressione: vale a dire hanno represso, ma non curato, una depressione. La domanda è se, come ipotizzano talune teorie psicologiche, la repressione è davvero una strategia sostenibile oppure se, a un certo punto, il paziente si sveglierà dal suo stato di voluta incoscienza, per poi crollare e confessare la terribile verità. Benché nulla sia più incerto del corso di una crisi insolita come questa, mi sento in grado di abbozzare sei risposte per spiegare perché la repressione, in ultima analisi, è destinata a fallire. Primo, a meno che il piano di Paulson non abbia effetto immediato, potremmo assistere alla scomparsa di nuove banche. A un certo punto la settimana scorsa i derivati creditizi Cds, (Credit default swap) sono arrivati a rappresentare il 39% del debito dichiarato da Washington Mutual, che alcuni temono sia il prossimo istituto destinato a crollare. Resta da vedere se il modello delle banche d’affari indipendenti potrà sopravvivere in qualche modo senza l’intervento di un protettore che attrae depositi, come quello che la Merrill è riuscita a scovare all’ultimo momento. Secondo, il mercato dei Cds potrebbe sprofondare anch’esso. Tale epilogo è stato preannunciato quando il salvataggio di Fannie e Freddie ha costretto ben tredici gruppi di Wall Street ad accettare 1.400 miliardi di dollari di derivati collegati. Ma le conseguenze del fallimento della Lehman sono molto più serie e sollevano la questione se coloro che operano nel mercato hanno ritardato troppo a mettere in atto un meccanismo di pulizia. E’ vero, la maggior parte dei contratti dei derivati sono basati su documentazione standard, ma il fatto che essi restino essenzialmente polizze di assicurazione finanziaria vendute come prodotti da banco dall’assicuratore all’assicurato si scontra con il «guadagno» senza intoppi delle posizioni in una crisi come questa. L’intero sistema potrebbe incepparsi, il che sarebbe una manna per gli avvocati, non c’è dubbio, ma provocherebbe una nuova riduzione di liquidità. Terzo, quello che William Gross della Pimco, il gestore dei bond fund, ha definito come «tsunami finanziario», potrebbe continuare ad allargarsi fino a toccare gli angoli più remoti del sistema finanziario. Ci sono centinaia di miliardi di dollari in perdite che incombono sul debito delle imprese, quasi quanto è stato già perso nelle cartolarizzazioni ipotecarie. Quarto, è prevista una recessione negli Stati Uniti, a iniziare dall’ultimo trimestre di quest’anno, che si prolungherà per tutto il 2009. L’unico motivo per cui la crescita del Pil è ancora di segno positivo si spiega con un incremento delle esportazioni, dovuto principalmente al deprezzamento del dollaro. Il problema è che nemmeno il dollaro debole sarà in grado di generare una grossa crescita delle esportazioni se il resto del mondo rallenta. Quinto, sfortunatamente il resto del mondo rallenterà. Anzi, alcune parti del mondo sono già in anticipo sugli Stati Uniti nella corsa alla recessione, tra cui le più grandi economie industrializzate. La crescita è inoltre rallentata in un certo numero di mercati emergenti: Ungheria, Malesia, Messico, Singapore, Sudafrica e Tailandia. La buona notizia è che il raffreddamento dell’economia mondiale ha ridotto le pressioni inflazionistiche già in rialzo, specie per l’incremento del prezzo di energia e alimenti. La brutta notizia è che i mercati emergenti saranno investiti da contraccolpi finanziari più violenti, proprio per la riduzione della crescita. La Russia, che si è fatta del male da sola con la sua spedizione stile anni Trenta in Georgia, è in fondo alla classifica, con i mercati azionari costretti a chiudere temporaneamente la settimana scorsa per evitare il crollo completo. (A smentire ogni ipotesi di «storia che si ripete», ecco un promemoria per Vladimir Putin, primo ministro della Russia: quando invase i Paesi confinanti, Hitler aveva già stabilito forti controlli sui capitali). Sesto, le elezioni presidenziali americane smetteranno i panni da telenovela a cui le convention ci hanno abituato per diventare una competizione tra due varietà di populismo economico. Studiate e confrontate le seguenti dichiarazioni: 1. «Le decisioni prese nei consigli di amministrazione, nei mercati azionari e a Washington… hanno premiato la manipolazione finanziaria anziché la produttività e le pratiche commerciali più affidabili. Abbiamo permesso ai loro interessi di spadroneggiare nell’economia. Il risultato è stato un mercato distorto… che favorisce Wall Street a scapito del cittadino… un’etica dell’ingordigia... che ha sempre minacciato la stabilità a lungo termine del nostro sistema economico». 2.«Gli eccessi, l’avidità e la corruzione di Wall Street ci hanno spinti in una situazione difficile, che andrà a intaccare gli interessi di ogni cittadino… Dobbiamo imporre nuove regole al sistema». La prima è di Barack Obama, in un discorso fatto a marzo. La seconda citazione appartiene a John McCain, e risale a 7 giorni fa. Nel prossimo mese, Wall Street rischia di prendere più batoste dalla politica di quanto non ne abbia subite negli ultimi 25 anni. Tra i due candidati si avvertono sfumature di accento: per il democratico, la colpa della presente crisi è da ascriversi alla «deregulation ». Obama potrà puntare il dito, se vorrà, contro la privatizzazione di Fannie Mae, la catastrofe del risparmio e del credito o l’annullamento della legge Glass-Steagall, come esempi del modo in cui la deregulation dei servizi finanziari, dagli anni Sessanta ad oggi, ha spinto l’America sull’ orlo del baratro infernale. Il rivale repubblicano addosserà la colpa a Washington più per i peccati commessi che per quelli di omissione. Dopo tutto, è stato il governo federale a spingere il mercato del credito a favorire la proprietà immobiliare con scarsa attenzione alle garanzie; è stata la Federal Reserve ad attizzare il fuoco della speculazione con la benedizione di Greenspan – nella convinzione che la Fed avrebbe tagliato i tassi se le azioni fossero scese troppo. E la Securities and Exchange Commission sonnecchiava mentre i più grandi protagonisti di Wall Street ballavano sul vulcano dell’indebitamento; è stato il Congresso a lasciarsi subornare dai sontuosi contributi alla campagna elettorale versati da istituti come Fannie e Freddie. Chiedere al Congresso di elaborare «una struttura normativa per il ventunesimo secolo» (nelle parole di Obama) potrebbe essere come chiedere a una masnada di ladri di bestiame di badare al nostro ranch. In ultima analisi, tuttavia, nessuno dei due candidati potrà permettersi parole buone per la finanza. Potrebbe essere, questa, la carta migliore per vincere voti, ma non farà gran che per ristabilire la fiducia a Wall Street. Né è l’unica minaccia politica nel grande salvataggio prospettato da Paulson al Tesoro. Metà degli attuali membri del Congresso sperano di farsi rieleggere a novembre. A giudicare dalle reazioni iniziali, potrebbero anche non approvare pedissequamente il piano Paulson, che assomiglia troppo a un assegno in bianco affidato dal comune cittadino agli ex padroni dell’universo che abitano a Wall Street. Non hanno guadagnato abbastanza, quelli, all’epoca delle vacche grasse? Non è venuto il momento anche per loro di perdere qualcosa? Eppure, il minimo segno di ritardo politico rischia di scatenare una nuova ondata di incertezza finanziaria. La Grande Repressione incombe su di noi. Da un lato si scorge la reazione a catena della riduzione dell’esposizione finanziaria: banche, aziende e famiglie si danno da fare per stabilizzare i bilanci impazziti all’epoca dei soldi facili; la contrazione del credito e le vendite forzose degli asset creano una spirale discendente negativa; e infine l’economia rallenta e così pure il resto del mondo. Dall’altro lato ci sono la Fed e il Tesoro, che manovrano disperatamente le leve fiscali e monetarie, mentre si scervellano per stabilire chi è troppo grande per fallire e chi non lo è. Basteranno le autorità a reprimere la depressione? Tra le sei ragioni sopra elencate a spiegare i motivi del loro probabile insuccesso, forse la politica possiede la chiave della soluzione. E sarà una ben magra consolazione pensare che il mondo non dovrà ripetere questa esperienza per un altro secolo.