Massimo Gaggi, Corriere della Sera 24/9/2008, 24 settembre 2008
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
NEW YORK – «Lei è il supervisore delle banche e qualche mese fa è venuto a dirci che il sistema era solido, ben capitalizzato. Invece è andato in pezzi. Ora, per salvarlo, ci chiede un assegno in bianco di 700 miliardi di dollari. Chi può crederle?». Per Ben Bernanke e Henry Paulson doveva essere un’audizione tesa ma costruttiva davanti al Congresso. Il piano di salvataggio di Wall Street l’ha trasformata in un corpo a corpo nella fossa dei leoni.
Il capo della Federal Reserve e il ministro del Tesoro si erano appena sedudi
ti quando da Richard Shelby, il senatore dell’Alabama che guida il gruppo repubblicano nella «Banking Commission », partiva il primo sasso. Poi, dopo Jim Bunning, repubblicano del Kentucky che si è detto addirittura «disgustato » dalla proposta del governo, è stato un altro senatore della destra, Bob Corcker del Tennessee, a prendersela con Paulson: «Qualche mese fa ci ha chiesto poteri straordinari per le autorità monetarie; diceva che per rimettere ordine nei mercati serviva un "bazooka": Averlo, agitarlo, non usarlo. Invece l’ha usato, non è bastato e ora ci chiede armi molto più potenti».
Il «processo» del Parlamento ai responsabili della politica monetaria è uno spettacolo nuovo e inaudito: deputati e senatori sanno di non potersi sottrarre all’approvazione del piano del governo, pena un vero collasso finanziario. Ma sono furiosi. Nel weekend, nei loro collegi, si sono trovati davanti elettori ancora più arrabbiati di loro che non vogliono sentir parlare di salvataggio di Wall Street e ora mettono Paulson sulla graticola.
Il ministro non solo vuole 700 miliardi di dollari – il Pil di un Paese industrializzato di medie dimensioni – ma vuole carta bianca sul loro utilizzo. Comprerà da migliaia di banche e finanziarie vagoni di titoli immobiliari. Ma, a sua discrezione, potrà acquistare anche altro – carte di credito, prestiti universitari o per l’auto – senza bisogno di nuove autorizzazioni. «Lei tra qualche mese tornerà un privato cittadino», sibila Corker. «Io dovrò continuare a rappresentare quattro milioni di elettori del mio Stato sulle cui spalle stiamo caricando un debito aggiuntivo di 3000 dollari pro capite». «Il piano – lo spalleggia il democratico Dodd – prevede l’assoluta impunità per il governo. Qui, oltre all’economia, è in pericolo la Costituzione».
Non ci sono più distinzioni tra destra e sinistra: i democratici non digeriscono l’idea di salvare i ricchi banchieri di Wall Street coi soldi del «taxpayer ». La destra conservatrice denuncia la «socializzazione» del sistema creditizio e la demolizione dei principi liberisti che, pure, Bush aveva abbracciato. Mentre al Senato infuria la battaglia, il vice del presidente, Dick Cheney, va alla Camera dove il dibattito sul salvataggio sbarca stamattina, a carcare di calmare i repubblicani che sono ancor più arrabbiati dei loro colleghi del Senato.
Buona parte della finanza Usa viene statalizzata, ma a vincere non è la politica, non quella con la P maiuscola, almeno. In molti Paesi emergenti del mondo il mercato si è imposto, ma non ha portato più democrazia: le idee circolano di più, magari si vota, ma la gestione resta centralistica e autoritaria. Cambia solo la struttura delle oligarchie, la loro efficienza.
L’America resta un altro mondo, ma anche in un Paese profondamente democratico i rappresentanti del popolo scoprono che, dopo aver discusso per anni di provvedimenti del valore di miliardi o, al massimo, decine di miliardi di dollari, ora sono schiavi degli errori di un pugno di banchieri, dei mercati in tempesta e devono affidare a due signori che nessuno ha eletto il più grande salvataggio della storia americana: un onere che si scaricherà sulle spalle dei cittadini per almeno un paio di generazioni e che, con gli interventi d’emergenza già decisi nei mesi scorsi, potrebbe portare addirittura a un raddoppio del debito pubblico americano.
Un dramma politico, fiscale e finanziario. Nel quale non manca, però, il tocco della farsa. I senatori chiedono almeno un «calmiere» per i megastipendi dei banchieri. Dall’alto dei 500 milioni di dollari accumulati in 32 anni alla Goldman Sachs, Paulson annuisce gravemente: «Il vostro disagio per questa situazione è anche il mio, è frustrante. Ma non si può fare». Su questo, però, i politici non mollano. Il ministro-banchiere dovrà trovare un compromesso.
Sotto torchio Paulson e Bernanke Massimo Gaggi