Vincenzo Nigro, la Repubblica 21/9/2008, pagina 36, 21 settembre 2008
la Repubblica, domenica 21 settembre Tiblisi, agosto dell´anno 2008. Il presidente di turno dell´Unione europea Nicolas Sarkozy in una navette diplomatica fatta di voli incrociati, ma soprattutto di telefonate, fax ed e-mail, inizia a gettare secchi d´acqua sulla guerra di agosto in Georgia, la vendetta russa per l´indipendenza del Kosovo
la Repubblica, domenica 21 settembre Tiblisi, agosto dell´anno 2008. Il presidente di turno dell´Unione europea Nicolas Sarkozy in una navette diplomatica fatta di voli incrociati, ma soprattutto di telefonate, fax ed e-mail, inizia a gettare secchi d´acqua sulla guerra di agosto in Georgia, la vendetta russa per l´indipendenza del Kosovo. Il presidente francese lavora su un piano in sei punti. Al sesto punto la versione francese parla di «inizio di un dibattito internazionale sul futuro status e sulla sicurezza duratura dell´Abkhazia e dell´Ossezia del Sud». La versione inglese e russa parla di «inizio di un dibattito internazionale sul futuro status e sulla sicurezza duratura in Abkhazia e Ossezia del Sud». I georgiani, che firmano la versione in francese, credono che ci sarà un negoziato sul futuro delle due province invase dai russi. I russi sanno che in Abkhazia e Ossezia la sicurezza la garantiranno loro. Londra-Istanbul, anno di grazia 1585. Il Sultano turco scrive una lettera a Elisabetta d´Inghilterra, regina di un lontano e marginale regno europeo, un´isola ai limiti estremi di un continente vicino a quello su cui comandano i turchi: «Noi speriamo che voi continuerete ad essere saldi sul cammino della lealtà e della fedeltà al nostro trono imperiale globale». il linguaggio di un imperatore mondiale al capo di un lontano Stato considerato vassallo. La traduzione in inglese che verrà inviata alla figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena è più o meno questa: «Noi speriamo che vogliate continuare nelle nostre relazioni di sincera amicizia». il linguaggio rispettoso di un grande sovrano a un collega, la regina di un regno più piccolo ma comunque degna di un trattamento politicamente corretto. Roma, settembre 2008, abitazione di Reda Hammad, l´italiano nato in Egitto che da anni è il traduttore ufficiale del Ministero degli Esteri per tutti gli incontri con i re, i presidenti e i raìs arabi. «La traduzione è uno strumento, ma non è uno strumento passivo, automatico, immobile. qualcosa di adattabile, di modificabile. Perché spesso la traduzione può diventare - e deve essere pronta a diventare - capro espiatorio, oppure un modo per non affrontare un nodo politico, o per rinviare lo scontro, o per salvare la faccia di fronte alla propria parte. O magari può diventare il modo per adoperare l´inganno o l´equivoco come strumenti del negoziato e della manovra politica». Non è precisamente il tono delle parole del dottor Reda Hammad, ma è quello che noi capiamo e traduciamo: «Io sono ancora in servizio, e cancello accuratamente ogni ricordo interessante o imbarazzante, per continuare nella mia missione con il governo italiano. Antonio Badini, ambasciatore d´Italia al Cairo e prima ancora direttore generale per il Medio Oriente alla Farnesina, mi diceva spesso dopo gli incontri: "Lei avrà tanto di quel materiale per i suoi libri?". Ma non potrò scrivere libri? Un errore, un piccolo problema di traduzione ve lo racconto: eravamo con D´Alema ministro degli Esteri a un pranzo con gli ambasciatori arabi. D´Alema parlò del Golfo tra Arabia e Iran come lo chiamiamo noi qui in Italia, il "Golfo Persico". Io tradussi così, "Golfo Persico", ma voi sapete che gli arabi lo chiamano "Golfo Arabico", non c´è bisogno di spiegare perché. L´ambasciatore kuwaitiano fu il primo a protestare, D´Alema non comprendeva l´arabo ma capì tutto. Gli bastò uno sguardo e io passai a parlare di "Golfo", semplicemente di "Golfo" durante tutto il pranzo». Reda non aggiunge di più, o forse quello che aggiunge non può essere tradotto. Ma indica alcuni libri. In un piccolo saggio di Bernard Lewis, il grande studioso dell´Islam, c´è la spiegazione di quella diversa traduzione nel messaggio del XVI secolo tra turchi e inglesi. Quella traduzione, come tutte le corrispondenze diplomatiche della Sublime Porta, veniva effettuata dai dragomanni, i "turkmann". Nel 1583 il primo ambasciatore inglese presso il Sultano si rese conto che in Inghilterra nessuno conosceva la lingua turca, e in Turchia nessuno era interessato a quello strano idioma di un lontano Paese del nord che era l´inglese. Risolse il problema scegliendo un terzo linguaggio, l´italiano, dando così origine alla classe dei dragomanni, i traduttori professionisti al servizio degli inglesi, istituzionalizzati dagli ottomani e adoperati poi nei contatti con gli altri popoli europei che si avvicinarono alla Sublime Porta. Bernard Lewis, nel suo libro Da Babele ai Dragomanni, interpretare il Medio Oriente, spiega meglio come sia possibile che quel messaggio del Sultano turco da imperatore a vassallo venisse trasformato in qualcosa d´altro: «Il dragomanno è più che un mero traduttore. una specie di mediatore, che tra l´altro viene adoperato non solo nelle relazioni con gli altri Stati, ma anche per le comunicazioni tra la capitale ottomana e le province». Progressivamente i dragomanni aumentarono la libertà delle loro traduzioni, accrescendo il proprio ruolo di mediazione e ricavandone maggiori benefici: agli occhi dei regnanti europei apparvero sempre più come degli intermediari da pagare, per ottenere che il messaggio venisse trasmesso con efficacia ma soprattutto che la richiesta contenuta nel messaggio avesse successo. Presto gli altri regni europei - francesi, tedeschi, austriaci, russi - reclutarono personale capace di interpretare l´arabo, il turco, il persiano, per evitare il monopolio dei dragomanni. Lo stesso fece lo zar Pietro il Grande, che il 12 gennaio del 1727 con un ukaze creò un seminario di lingue orientali a Pechino. Fino ad allora i traduttori ufficiali degli imperatori di Cina erano stati i gesuiti. E la lingua che metteva in contatto russi e cinesi o asiatici era il latino, che né i russi né i cinesi conoscevano talmente bene da poter verificare. I gesuiti come i dragomanni: una traduzione strumento di accrescimento del ruolo di chi traduce. «Una traduzione fatta parola per parola può essere dannosa», dice Hammad, «così come la traduzione eccessivamente interpretata può essere infedele. Il traduttore è un mediatore, e l´interpretazione di ciascuno di noi è fatta con strumenti che non sono solo la conoscenza delle lingue, ma anche la conoscenza degli argomenti, della politica, qualche volta magari la nostra condizione psicologica, la nostra condizione umana». Allora, chi ha ragione in quella traduzione non perfettamente coincidente nei sei punti di Sarkozy? Chi è stato il "dragomanno" che ha permesso al presidente francese di chiudere un negoziato facendo capire alle due parti una cosa diversa, salvando l´onore dell´Unione europea, fermando i bombardamenti sulla Georgia, riconoscendo la vittoria ai russi? Reda Hammad, il traduttore dall´arabo, non lo dice: «Io non conosco il russo, non so com´è andata, non posso giudicare». Ma gli altri racconti che ci ha fatto, il linguaggio del corpo, i libri che consulta, ci offrono una spiegazione. Che noi traduciamo liberamente: il "dragomanno", il traduttore che modifica il messaggio a suo uso, è Sarkozy in persona, il mediatore. lui che ha plasmato le parole per far capire a chi ha perso la guerra che l´aveva persa per davvero. Altro che errori di traduzione, altro che trucchi o inganni. Come la guerra, la traduzione è il proseguimento della politica, con altri mezzi. Vincenzo Nigro