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 2008  settembre 23 Martedì calendario

L’indice scende e il petrolio sale perché da Washington non arriva il definitivo via libera». Sul parterre di Wall Street Alex Merk, titolare dei Merk Funds, spiega la giornata negativa con le turbolenze a Washington

L’indice scende e il petrolio sale perché da Washington non arriva il definitivo via libera». Sul parterre di Wall Street Alex Merk, titolare dei Merk Funds, spiega la giornata negativa con le turbolenze a Washington. Nella capitale i negoziati sul maxi-fondo da 700 miliardi di dollari per tamponare la voragine dei mutui restano in bilico a causa dei disaccordi fra amministrazione repubblicana e leader democratici del Congresso. Reduce dal balzo in avanti di venerdì e sostenuto dalle attese del weekend il Dow Jones va giù sin dall’inizio delle contrattazioni, quando a New York sono le 9,30 del mattino. Meno 50, meno 90, meno 150. Per una volta i broker più che ai dati economici guardano ai resoconti delle agenzie su Capitol Hill dove Nancy Pelosi, presidente della Camera, rimprovera a Henry Paulson, ministro del Tesoro, di aver presentato un piano «che non va incontro ai cittadini». Alle 10,30 il rosso sotto i 100 punti si consolida. John Carey, manager di Pioneer Investment Management, scuote il capo: «Non è chiaro quando le società finanziarie si gioveranno degli aiuti pubblici». L’incertezza si deve al fatto, come dice Andrea Mitchell (moglie di Alan Greenspan) dagli schermi della tv Nbc, che «sappiamo che tutti vogliono il maxi-fondo ma non sappiamo quando si farà». Paulson vuole il voto del Congresso entro domani, ma credere a scadenze precise per i broker è difficile perché nella stanza 101 del Russell Building di Washington il senatore democratico del Connecticut Chris Dodd ha messo nero su bianco un contro-piano che punta a strappare alla Casa Bianca la campagna contro i subprime. Ex ufficiale della riserva, educato dai gesuiti e con il gusto per lo humor irlandese, il sessantaquattrenne Dodd è il capo della commissione Finanze del Senato senza il cui assenso Paulson non farà nulla. Il suo piano parte dalla premessa che «non possiamo prendere 700 miliardi di denaro pubblico senza proteggere i contribuenti» e propone al Tesoro una raffica di modifiche: in cambio dei soldi versati alle società, lo Stato dovrà avere azioni per risponderne agli investitori; serve un consiglio di supervisione per controllare come il Tesoro gestirà i mutui tossici; i manager dovranno tagliarsi i super-stipendi e restituire i profitti fatti ai danni altrui; i cittadini alle prese con i pignoramenti avranno aiuti, inclusa la possibile riduzione delle rate. Dodd vuole rimodellare il maxi-fondo e il parigrado alla Camera, Frank Barney, lo sostiene definendo le proposte Paulson «del tutto irragionevoli». Sono le 12,47 quando un lancio di Bloomberg svela i dettagli del piano Dodd e l’indice è oramai stabilmente sotto i 200 punti. Ai democratici che puntano a sfruttare la crisi per mettersi dalla parte di pignorati, azionisti e contribuenti la Casa Bianca risponde accusandoli di fare bassa politica rischiando di mandare a rotoli l’economia, non solo nazionale. Il presidente George W. Bush dirama un comunicato di 30 righe per ammonire: «Il mondo intero ci guarda, dobbiamo agire in fretta, un fallimento avrebbe conseguenze che andrebbero ben oltre Wall Street». L’incubo è quello che il parterre ha temuto giovedì: l’indice era a 10.600, appena 200 punti più in basso vi sarebbe stato il «meltdown» (scioglimento) finanziario, perché oltre quella soglia l’ordine per i broker sarebbe stato «vendere fino alla fine». Quando gli orologi digitali del New York Stock Exchange segnano le 13 gli sguardi si voltano verso Green Bay, una cittadina del Wisconsin soprannominata «Titletown» perché la squadra di football vanta una dozzina di titoli. Green Bay per mezz’ora spodesta Washington perché Barack Obama vi espone il «manifesto economico». Basterebbe un minimo plauso al piano Paulson per ridare fiato ai mercati, ma Obama dice: «Nessun assegno in bianco sul maxi-fondo, cambiamo le regole per porre fine alla gestione selvaggia dell’economia da parte dei repubblicani». Obama parla e l’indice scende ma i democratici guardano a ben altri numeri, quelli dei sondaggi: la crisi finanziaria ha azzerato la ripresa del repubblicano McCain e Barack è tornato in testa nella sfida per la Casa Bianca, 48 a 44 per cento. McCain tenta di rispondere accusando Obama di «non dimostrare capacità di leadership» perché «privilegia interessi politici a quelli nazionali» e propone nomi come Mike Bloomberg e Warren Buffett per l’ente di controllo. La sovrapposizione fra presidenziali e negoziati sul maxi-fondo trasforma il terremoto dei subprime in una crisi a più piazze, aumentando le incognite e affondando in chiusura il Dow Jones sotto il 3 per cento mentre il petrolio vola oltre 128 dollari con un balzo di 26, il maggiore in una sola seduta dal 1991. Jim Ritterbrush, analista petrolifero dell’Illinois, spiega il rialzo con la «Bailout anxiety» (l’ansia sul piano di salvataggio) perché «nell’incertezza la corsa è alle materie prime». Ma quando le contrattazioni si fermano il crollo non c’è stato. Gli operatori danno ancora un po’ di tempo alla politica, scommettendo che si tratti di una partita a poker e che nessuno vorrà assumersi il rischio di apporre la propria firma sul «meltdown». E un’ora dopo la chiusura arriva da Washington l’annuncio di una possibile schiarita: la Casa Bianca accetta le idee di Dodd su aiuti ai pignorati e commissione di supervisione sul maxi-fondo. CONTINUA A PAGINA 8 Stampa Articolo