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 2008  settembre 08 Lunedì calendario

Anno V - Duecentotrentaseiesima settimanaDal 1° all’8 settembre 2008Papa Il mondo politico italiano è in subbuglio perché il Papa, parlando a Cagliari in occasione dei cento anni della Madonna di Bonaria, ha detto che ci vuole una nuova generazione di politici cattolici, «capaci di evangelizzare il mondo del lavoro, dell’economia, della politica»

Anno V - Duecentotrentaseiesima settimana
Dal 1° all’8 settembre 2008

Papa Il mondo politico italiano è in subbuglio perché il Papa, parlando a Cagliari in occasione dei cento anni della Madonna di Bonaria, ha detto che ci vuole una nuova generazione di politici cattolici, «capaci di evangelizzare il mondo del lavoro, dell’economia, della politica». Imbarazzo generale, specialmente dei politici cattolici in servizio, e macrointerrogativo: che cosa va cercando Benedetto XVI? La risposta più semplice («vuole che nasca una nuova Dc») è stata smentita da uno che se ne intende, Vittorio Messori, che con Ratzinger ha scritto addirittura un libro (Rapporto sulla fede, Edizioni Paoline 1987): assolutamente no, «l’eutanasia della Dc è stata benefica», il papa vuole anzi che i cattolici si disseminino in tutti gli schieramenti in modo che, chiunque governi, ci sia una componente capace di difendere «i valori non negoziabili come la sacralità della vita, la centralità della famiglia e la libertà educativa» (quest’ultima espressione allude alla pretesa vaticana che le scuole private cattoliche ricevano finanziamenti dallo Stato in modo da essere concorrenziali alla scuola pubblica). La risposta più banale («vuole che Berlusconi accolga quelli dell’Udc nel PdL»), più o meno avvalorata da Casini e Buttiglione, ha una giustificazione illustre nell’intervento pesante di Ruini, prima delle elezioni, per convincere Berlusconi a far cartello con l’Udc senza inglobarla. E però anche questa sembra una ben misera ragione per un discorso che ha avuto invece toni assai alti, con parole forti dedicate ai giovani e al loro entusiasmo troppo spesso depresso dal nichilismo imperante. Se nessuna di queste due risposte suona del tutto convincente, quale sarà la verità?

Bossi-Di Pietro Sondaggi recentissimi dànno in forte ascesa la Lega nello schieramento di centro-destra e Di Pietro in quello di centro-sinistra. La Lega - che ha preso l’8 per cento alle ultime politiche - starebbe adesso al 10 se non addirittura al 13 per cento su base nazionale, il che significa una maggioranza schiacchiante al Nord, dato che il partito al Sud, almeno fino ad ora, è praticamente assente. I leghisti fanno continuamente la fronda: vogliono un sì immediato alla bozza federalista preparata da Calderoli, spingono per una tassa di servizio che rimpiazzi l’Ici a favore dei comuni, resistono alle idee del ministro Alfano sul braccialetto elettronico (vedi più avanti), lo stesso Bossi, gridando che il ritorno al maestro unico alle elementari è una fesseria («perché su tre maestri almeno uno sarà bravo»), ha reclamato per la Lega il ministero della Pubblica Istruzione guadagnandosi una scarica di improperi dalla Gelmini (a cui il Senatùr ha risposto: «Non posso mandarla via se no cade il governo»). Di Pietro, a sua volta, starebbe al 10,5 per cento contro il 5% preso alle politiche di aprile. Ma in certe regioni, come il Molise o l’Abruzzo (dove tra poco si voterà), starebbe addirittura al 30 e anche oltre, con un vantaggio cioè netto sul Partito democratico, che gli ha permesso di continuare ad esistere. Qui la fronda è stata ancora più netta che nel centro-destra: l’Italia dei Valori cavalca sfrenatamente l’antipolitica, dando sempre ragione ai magistrati, sempre torto a Berlusconi e non risparmiando attacchi anche pesanti alla leadership democratica. C’è qualche rapporto tra questi dati e la presa di posizione di Benedetto? Forse sì. Il Papa, dal suo punto di vista, non ha torto nel paventare il successo di queste forze non tradizionali, da noi ben più incombenti di un’eventuale formazione alla Zapatero: la Lega si dice cattolica, ma assai tepidamente. La sua simbologia è tutta pagana, il suo atteggiamento verso il sociale assolutamente non solidaristico: le posizioni sugli immigrati, come si ricorderà, hanno fatto strillare Famiglia cristiana. Quanto a Di Pietro, le radici ideologiche dell’ex poliziotto-magistrato sono giacobine, i suoi referenti e compagni di strada il peggio (sempre dal punto di vista vaticano) dell’anticlericalismo in circolazione: i girotondini di Micromega, le streghe alla Guzzanti, i radicali più irridenti e irriverenti.

Manette La storia delle manette è questa. A due anni dal’indulto, le carceri italiane sono di nuovo al limite del sovraffollamento, con qualche concreto rischio di rivolta. In poche parole: quelli che sono usciti, nella gran maggioranza dei casi, hanno ricominciato a delinquere e sono presto tornati dentro. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha perciò pensato di svuotare le celle ricorrendo al braccialetto elettronico. Sarebbe applicato a settemila detenuti, tra immigrati da rimandare a casa (dove finirebbero di scontare la pena) e italiani condannati a meno di due anni che, col braccialetto al polso, potrebbero starsene ai domiciliari. Il ministro dell’Interno Maroni ha subito detto che non se ne parla. Ossia: che se ne può parlare solo se la garanzia di non-evasione è al cento per cento. Alfano dice che ormai questi strumenti sono sicurissimi, ma la sperimentazione fatta da noi - molto distrattamente - in questi ultimi cinque anni darebbe risultati sconfortanti. I volontari che si sono fatti mettere il braccialetto per prova sono tutti evasi in poco tempo, il braccialetto è per legge di costruito con un materiale morbido facile da tagliare, se pure il danneggiamento dell’aggeggio fa scattare l’allarme in questura questo allarme serve a poco perché dal braccialetto non partono segnali che permettano di individuare il luogo dove l’evaso si nasconde. Ci vorrebbe il monitoraggio dal satellite, ma questo, secondo quanto ha fatto sapere la Comunità europea, lederebbe fondamentali diritti dell’Uomo. Maroni, con i suoi dubbi, ha l’aria di avere ragione.

Elezioni Usa I repubblicani sono in forte recupero su Obama. Rasmussen e Gallup dànno ancora un lieve vantaggio al candidato democratico (che dopo Denver e prima dell’apparizione di Sarah Palin viaggiava con margini del 4-8 per cento), ma Zogby sostiene che McCain e la sua vice hanno adesso quasi quattro punti in più, 49,7% a 45,9%. Il rafforzamento repubblicano non sarebbe tanto dovuto all’elettorato femminile (la governatora dell’Alaska è troppo estremista per incantare le clintoniane depresse) quanto a un ritorno in massa della base più conservatrice, convinta appunto dalle posizioni teo-con della Palin. I democratici hanno affidato a Hillary Clinton il compito di contrastare la nuova stella americana. Hillary, in un discorso a Staten Island, è partita subito all’attacco: «Non ho sentito nulla che suggerisca un aiuto da parte dei repubblicani all’economia e al lavoro».

Crisi economica E proprio l’economia, insieme con la politica estera (un’agenda troppo ricca: Irak, Afghanistan, Iran e Russia), dovrebbe essere il terreno di confronto preferito tra i due candidati. La settimana scorsa le Borse hanno avuto un paio di crolli spettacolosi, con perdite nell’ordine dei 300 miliardi di euro. Gli indici della disoccupazione Usa sono schizzati verso l’alto e così anche quelli relativi al pignoramento delle case. Domenica scorsa, prima della riapertura delle Borse, gli americani hanno poi preso una decisione che non ha precedenti: nazionalizzare le due banche più importanti che operano sul mercato dei mutui, cioè Freddie Mac e Fannie Mae, in modo da garantire liquidità al sistema. Un’operazione dal sapore socialista, presa da un destro come Bush (con l’approvazione preventiva sia di Obama che di McCain) e che dovrebbe costare al contribuente americano 100 miliardi di dollari.