Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  settembre 18 Giovedì calendario

Panorama, giovedì 18 settembre Sebastopoli. Arrivano di buon passo, con le croci, i gonfaloni e le icone dorate

Panorama, giovedì 18 settembre Sebastopoli. Arrivano di buon passo, con le croci, i gonfaloni e le icone dorate. Si fermano davanti alla statua di Caterina II di Russia, che nel 1783 decise di fare di Sebastopoli la base della marina imperiale nel Mar Nero, per cantare «onore alla Russia». Due babushka raggrinzite dagli anni dondolano intorno al monumento nella loro personale processione. In mano portano i ritratti degli ultimi imperatori assassinati a Ekaterinburg. Una donna passa, guarda la zarina di bronzo che si staglia sul piedistallo e si fa il segno della croce accennando una genuflessione. Per molti abitanti di questa indomita città Caterina II è il simbolo della «santa madre Russia». E della loro resistenza all’Ucraina, lo stato di cui fanno parte, ma al quale sentono di non appartenere. La statua sorge davanti al quartier generale della flotta russa nel Mar Nero, che ha un contratto d’affitto fino al 2017. L’hanno costruita a maggio «con i soldi della gente di Sebastopoli. E il contributo di Mosca». Il consiglio comunale era d’accordo, ma l’esecutivo, nominato dal governo di Kiev, ha cercato di opporsi. Per 3 mesi un gruppo di cittadini ha fatto la guardia a Caterina, giorno e notte, temendo che potessero abbattere la statua. Se ne sono andati quando gli hanno assicurato che sarebbe rimasta lì. «Questa è Russia, lo è sempre stata e sempre lo sarà» sottolinea risoluto Sergeij, 40 anni, tassista su una vecchia Lada, bandiera bianca rossa e blu infilata nel cruscotto. Il conflitto d’agosto in Georgia ha rinfiammato il nazionalismo mai sopito di una regione, la Crimea, che conta il 60 per cento di russi (sono il 17,3 per cento nell’intera Ucraina). Solo a Sebastopoli sono circa 270 mila su una popolazione di 360 mila. Inutile chiedere da che parte si è schierata la gente quando ha visto in tv i carri armati di Mosca scorrazzare per le strade di Gori. Il presidente ucraino Viktor Yushchenko si è affrettato ad annunciare restrizioni alla libertà di movimento delle navi russe a Sebastopoli. Sulla spiaggia della città un gruppo di donne in costume da bagno ha riservato, invece, una festosa accoglienza all’incrociatore Moskva rientrato, il 22 agosto, da una spedizione in Georgia. Qualche giorno dopo, manifestanti con striscioni anti Nato hanno urlato «Yankee go home» alla guardia costiera Us Cutter Dallas, reduce da una missione umanitaria in Georgia, che voleva attraccare a Sebastopoli su invito di Kiev. Gli yankee hanno preferito restare al largo. «Ciò che ha fatto la Georgia con l’Ossezia ricorda la politica aggressiva della Germania nazista. E la Russia ha solo compiuto un’azione di peacekeeping» sentenzia Viktor Alexandrevic, capitano di marina in pensione. Opinione condivisa dal 74,6 per cento degli abitanti della Crimea, contro il 27 per cento dell’Ucraina occidentale, per il sondaggio del settimanale Zerkalo Nedeli. L’ex militare ha precise convinzioni sull’anima del potere di Mosca: «La Russia non è un paese adatto alla democrazia di tipo europeo. Ha sempre avuto leader forti. Dopo il crollo dell’Urss, tali leader sono mancati e si è assistito al fiorire di nuovi stati, tra cui l’Ucraina. Alla quale, intendiamoci, Sebastopoli non fu mai legalmente assegnata». Ora che al Cremlino gli uomini forti sono tornati, l’Occidente teme che all’Ucraina possa toccare la stessa sorte della Georgia ribelle. Kiev come Tbilisi ha espresso la volontà di entrare nella Nato e Mosca potrebbe essere tentata dal frenare la fuga del riottoso vicino e riaffermare la sua influenza, facendo leva sui sentimenti dei russi di Crimea. Vladimir Putin ha usato toni rassicuranti dichiarando che «la Russia ha da tempo riconosciuto i confini con l’Ucraina e le tensioni etniche sono questioni interne». «Però, anche su Ossezia e Abkhazia Mosca aveva espresso una posizione ufficiale diversa in passato. L’ha cambiata» avverte Oleksandr Sushko, direttore delle ricerche all’Istituto per la cooperazione euroatlantica di Kiev. «In Crimea non ci sono movimenti separatisti, ma la forte presenza russa è un potenziale strumento di destabilizzazione. E non possiamo escludere che, se l’Ucraina continuerà a volersi staccare dall’orbita russa, Mosca possa decidere di ricorrere a quello strumento. Del resto c’è già chi sta rispolverando la retorica degli anni Novanta, quando si pose con forza la questione». Il riferimento è, tra gli altri, a Yuri Luzhkov, il sindaco di Mosca che a maggio, durante le celebrazioni per i 225 anni della flotta del Mar Nero, ha lanciato un monito: «Non è troppo tardi per chiedervi la restituzione di ciò che non vi appartiene». Mentre il parlamentare ucraino Mykola Stretovych sostiene che i russi stanno distribuendo passaporti a Sebastopoli, proprio come nelle repubbliche separatiste della Georgia. Tuttavia, in questo sabato assolato i conflitti paiono lontanissimi da Sebastopoli. Coppie di sposi si accalcano per scattare una foto davanti al memoriale che ricorda l’assedio del 1941-42, giovanissimi marinai russi e ucraini passeggiano sul lungomare. Le loro navi si scrutano nella baia e a volte c’è perfino tempo per una birra insieme. «La guerra? Non scherziamo, la potenza russa è imbattibile» sorride Vladimir, in servizio militare. Stanislav, imprenditore ucraino, 45 anni, ritiene che a Sebastopoli i problemi sono creati da un manipolo di politici e nostalgici dell’Urss. «Qui ci sono molti vecchi. I giovani e la gente comune badano solo ai loro affari». A contraddirlo c’è Nadia, 22 anni, che offre escursioni ai turisti. Non gradisce che «si cambi la storia dicendo che qui siamo in Ucraina». Furtivamente, apre la borsetta e mostra un nastro bianco rosso e blu. Nadia aderisce all’iniziativa «Colori veri» per sostenere l’identità profonda della città, ma non può indossarne il simbolo mentre lavora: «Ai visitatori ucraini potrebbe dare fastidio». Custode dell’anima russa è la Rossyskaya obshchina (comunità russa), che è stata trascinata tre volte in tribunale con l’accusa di attentare all’integrità dello stato. Secondo uno dei suoi fondatori, Alexander Mozorov, conta migliaia di iscritti, ma dalla Russia riceve solo i contributi per pubblicare un bimestrale. «In un referendum del 1994, l’89 per cento dei votanti disse che Sebastopoli doveva essere russa. L’esito, di comune accordo tra Mosca e Kiev, fu congelato» ricorda. «Anche in Crimea furono raccolte firme per una consultazione, che non si è mai svolta». Mozorov assicura che legali russi stanno studiando i documenti che attestano il passaggio della Crimea all’Ucraina (avvenuto per volere di Nikita Krusciov nel 1954) per trovare una falla. Intanto lamenta l’offensiva linguistica intrapresa dal governo di Kiev: film americani doppiati solo in ucraino, scuole con sempre più ore di lezione solo in ucraino, istruzioni dei medicinali solo in ucraino. «Un disastro per gli anziani» osserva Mozorov. «Un genocidio culturale» ha tuonato un deputato della Duma moscovita. Ancor prima che scoppiasse la crisi georgiana, Yushchenko aveva dichiarato di non voler più rinnovare il contratto di affitto della flotta russa. «Come si fa? Questa città è nata e vive intorno alla base che dà lavoro a 20 mila persone» protesta Vladislav, 65 anni. Ma il presidente sembra deciso a sottrarsi alla zampata dell’orso russo. arrivato a provocare una crisi di governo accusando il primo ministro e sua ex alleata Yulia Timoshenko di «tradimento» per non aver condannato l’azione di Mosca in Georgia, e vuole correre in fretta a ripararsi sotto l’ombrello della Nato: «Vitale per la nostra sicurezza». Gli ucraini, però, non sono con lui: il 51,4 per cento si dice nettamente contrario all’adesione al Patto atlantico. «La Nato non è uno strumento per fare la guerra, è una garanzia per evitarla» conclude Sushko. «Soprattutto con una Russia che, intrappolata in un’idea di potenza zarista, è incapace di proporre un modello politico e sociale attraente. Per estendere la sua influenza sa soltanto mostrare i muscoli». Franca Roiatti