Libero 17 settembre 2008, Massimiliano Parente, 17 settembre 2008
Come sono belle queste case che non servono a niente. Libero 17 settembre 2008 Stamani all’alba, a Piazza San Marco, ho scoperto che i gabbiani si avventano sui piccioni, li decapitano con il becco e ne ingoiano la testa in un solo boccone
Come sono belle queste case che non servono a niente. Libero 17 settembre 2008 Stamani all’alba, a Piazza San Marco, ho scoperto che i gabbiani si avventano sui piccioni, li decapitano con il becco e ne ingoiano la testa in un solo boccone. Non l’ho visto solo io, il gabbiano killer, c’erano anche due inglesine che hanno urlato il classico «Oh, my god!», io per essere simpatico: «His name is Jonathan Livingstone!» (il suo nome è Jonathan Livingstone) e sono scappate, per paura di essere mangiate anche loro, dal gabbiano o da me, e ho proseguito verso la Biennale. Non si sa perché, ma ogni volta che c’è una biennale fioriscono polemiche biennali. Accade ovunque? Non lo so. incredibile, perché c’è sempre talmente di tutto, che ognuno dovrebbe trovare qualcosa che gli va bene, invece no. Quindi si susseguono i soliti battibecchi inviperiti, anzi ingabbianiti, per esempio tra gli italiani Mario Botta che si lamenta di una «Biennale lunapark», «una mostra appaltata all’estero», o Italo Rota («La biennale è in mano agli inglesi e agli americani»), e dall’altra parte il presidente Paolo Baratta che si difende e precisa, puntualizza, specifica, poveraccio. Al che Alessandro Gnocchi mi dice: «Senti, vai a dare un’occhiata tu» e eccomi qui, tra le calli, i ponti, le gondole, i turisti sulle passarelle rialzate in fila per San Marco e i gabbiani assassini che di giorno fanno gli uccelli perbene, a fare la spola tra l’Arsenale e i Giardini sotto una pioggerellina che, all’insegna delle decine di insegne sparpagliate per la città (’Out There, Architecture Beyond Building”) fa molto London, e il confortevole albergo dove alloggio si chiama anche ”Splendid Venice” e appena arrivato alla reception mi hanno subito preso per inglese o per Severgnini dicendomi: «Good moorning, mister», meglio di così si muore, a Venezia, con buona pace di Thomas Mann il quale oggi avrebbe fatto accasciare Gustav Von Aschenbach nello stand tubolare della Nivea perché non sapeva l’inglese, dove invece il commesso dice in italiano: «Insomma spacca, questa mostra d’architettura». Stanze digitali Non so se spacca, ma a me, che vengo dai Botta & Risposta, ha chiarito le idee sulla lagnosità del Padiglione Italia che spacca l’unione con la spensieratezza e forza creativa del resto del mondo. Perché una Biennale d’Architettura si chiama così ma è un luogo del pensiero, non un ufficio urbanistico, e qui si fa concorrenza, sbaragliandola, alla Biennale dell’Arte perché meno intrisa di terzomondismo spicciolo, di messaggi politici e ideologie di liberazione nazionale, e più librata nella forma, tanto mica ti ci devi trasferire dentro, e però magari, invece dovrò tornare nel mio appartamento di Viale Somalia, ai miei mobili Ikea. Perché io mi ci trasferirei subito, in una casa ”digitale” realizzata dal gruppo Penézic & Rogina Architects, tutta fatta di tubature colorate, canne fumarie, cavi, luci, valvole, antenne e congelatori a vista, seguendo un concetto divertente e perfino funzionalistico: «Quando una casa contiene così tanti servizi che la loro intelaiatura si reggerebbe in piedi da sé, senza alcun aiuto da parte dell’edificio, perché ricorrere a una casa per sorreggerli?». E così anche i tubi attorno al fornello ti sembrano bellissimi. Io mi ci trasferirei subito a S1ngletown, la città dei single immaginata e creata da Droog & Kesselkramer, e non mi sarei più alzato nemmeno dai divani della Hypnerosfera di Nigel Coas: anzitutto si entra scalzi e quindi puoi vedere i piedi delle ragazze e puoi sentirti proprio come un Polifilio moderno in cerca dell’amata Polia, non per niente si sono ispirati al sovversivo e erotico ”Hypnerotomachia Poliphili” di Francesco Colonna, pubblicato a Venezia nel 1499. E vorrei tanto, nel mio appartamento in Viale Somalia a Roma, almeno una delle tre ”case per il subconscio” di Asymptote Architecture, sono come delle sculture biomorfiche di Henry Moore ma abitabili, mi ci rintanerei dentro a scrivere i miei romanzi, io che non ho l’inconscio, sperando me ne venga uno o di perdere la mia parte conscia. (Purtroppo non te le fanno toccare, le case dell’inconscio, e è un’ingiustizia, a che pro ostentare tanta meravigliosa liscezza di plastica se non puoi rifarti i polpastrelli?). Mi tenterebbe tuttavia anche il poter avere una sala Lotus come quella progettata da Zaha Hadid Architects, mi piacerebbe starmene a riposare e a leggere in una di quelle strutture che sembrano uscite dall’astronave di Alien, e come se non bastasse me ne sto seduto dieci minuti nel ”camerino di prova” di Unstudio, più kubrickiano nello spirito, e mi sento bene, penso solo quanto dovrei guadagnare per potermi permettere un mobile ”giocattolo riciclato” di Greg Lynn, quale vertiginoso aumento chiedere a Feltri. Sono a mio agio perfino nell’Hyperhabitat dei Guallart Architects, uno spazio inquietante di mobili in wireless con il mondo, plexiglass trasparente e essenzialità e interconnessione globale, oggetti reali ma virtuali attraverso i quali entrare in contatto con oggetti lontani, («un letto o un libro, una palla o un crocifisso”), un’istallazione così perfetta e bella che la Apple potrebbe sponsorizzarla come accessorio dei suoi iMac. Casa Italia Mi sentivo così bene da aver dimenticato la mia vita di scrittore contronatura, mi era passato di mente perfino il gabbiano che mangia il piccione, e era svanita anche la malinconia di essere, questa volta, senza la precisa Pia Capelli con le sue planimetrie (alla quale, non resistendo e in stile Guallart, ho scritto un sms: «Sono a Venezia. Mi manchi», e lei risponde ironica: «Immagino»), finché non arrivo all’Italia, al Padiglione Italiano, che già dal titolo ti viene la depressione: ”L’Italia cerca casa”. Dove si presentano, come spiega Francesco Garofalo, «abitazioni di qualità a prezzi accessibili» e «una casa per ciascuno», perché, come spiega ancora meglio Giovanni Caudo, «perdere il lavoro è grave, individualmente e socialmente, ma perdere una casa lo è molto di più, ci si sente poveri», e si elencano statistiche da aggiornamento Istat («In Italia il 17,7% delle famiglie abitano in affitto… 4,2 milioni di famiglie… 9,6 milioni di individui…»), e si propongono case «da 100 mila euro, per 100 metri quadrati a zero emissioni di CO2 e in classe energetica A» come quelle di Mario Cucinella, o le nuove case collettive di Italo Rota perché «la gente non può vivere sola». Ci si sente subito dentro un libro di Malatempora, dentro un film di Zavattini, in pieno terzo mondo, nel neorealismo neopostmoderno più scalcinato, nella noia del progetto e dell’utilità, e poi uno si chiede perché i gabbiani staccano la testa ai piccioni, i quali piccioni forse avranno cominciato a chiedere alloggi agli architetti italiani. l’analogo del praticismo sociale in letteratura, dove gli scrittori si occupano di mafia e precariato e non si capisce perché anziché scrivere pessimi romanzi non facciano i sindacalisti o i magistrati, perché Botta e Rota non presentano i loro progettini sociali al Comune, anziché rompere i coglioni al curatore Aaron Betsky e al presidente Paolo Baratta e lagnarsi dell’eccesso di ”spettacolarizzazione”. Cos’altro dovrebbe fare, una mostra Biennale, se non farci sognare, se non essere una ”mostra che spacca”, come dice l’uomo della Nivea? come rimproverare a una sfilata di Valentino di non mostrare abiti comuni, per andare a lavorare in fabbrica o cucinare l’abbacchio con le patate. Certo, uno può pure pensare che una casa Lotus di Zaha Hadid non sia il massimo della comodità, ma esiste una comodità del pensiero impagabile e senza prezzo, e pertanto vale la stessa risposta di Alessandro Gnocchi quando gli elencavo tutti i difetti dell’i-phone: «Può darsi, ma vuoi mettere quei primi tre minuti di felicità, appena l’hai comprato?»