Gillo Dorfles, Corriere della Sera 18/9(2008, 18 settembre 2008
Non c’è dubbio che alcune delle sinuose sagome in plastica colorata, presentate a questa Biennale da Zaha Hadid alle sale dell’Arsenale di Venezia, possano diventare le matrici di un suo geniale progetto architettonico per dare ragione all’opinione del curatore, Aaron Betsky, che il cuore di questa arte debba essere «beyond» l’edificio costruito
Non c’è dubbio che alcune delle sinuose sagome in plastica colorata, presentate a questa Biennale da Zaha Hadid alle sale dell’Arsenale di Venezia, possano diventare le matrici di un suo geniale progetto architettonico per dare ragione all’opinione del curatore, Aaron Betsky, che il cuore di questa arte debba essere «beyond» l’edificio costruito. Eppure credo che in questo caso siano piuttosto alcune delle sue geniali costruzioni (non solo case, ma mobili, divani, lampade) a essere state le progenitrici delle sagome esposte alle Corderie. E lo stesso discorso si potrà ripetere per le incastellature lignee di Gehry, o per le sbarre metalliche incrociate di Herzog & de Meuron e Ai Weiwei. Con questo non nego affatto che sia positiva l’intenzione di Betsky di liberare l’analisi di quest’arte dalla esclusiva considerazione dell’edificio costruito e di rintracciare alcuni dei più importanti momenti germinali di ogni architettura; purché questo non ci conduca a una rinnovata e vacua «valeriana» (mi riferisco ovviamente all’Eupalios di Paul Valery) per cui la architettura non è che melodia pietrificata. Penso, infatti, che sia molto pericoloso voler privilegiare quel «momento aurorale» di idealistica memoria invece di analizzare e giudicare l’autentico prodotto architettonico a partire dai progetti ma sino alla compiuta realizzazione di questa «arte». E metto le virgolette proprio a sottolineare che è meglio non confondere, come spesso accade, i linguaggi delle diverse arti. Ne abbiamo un chiaro esempio in questa Biennale dove molte delle installazioni, dei filmati, delle formazioni plastiche, sono molto lontane dal linguaggio architettonico, sono molto più prossime a quello di altre arti visive. Rimanendo a un livello di «embrione formale » – spesso suggestivo ma raramente persuasivo. Anche senza volere riandare alle tante esemplificazioni (già esaurientemente trattate sul Corriere), vorrei ribadire come il principio caldeggiato dall’odierno direttore della rassegna veneziana – ossia verso una coscienza progettuale precedente l’autentica costruzione – è senz’altro interessante permettendo di analizzare molti aspetti troppo spesso trascurati, come il rapporto col paesaggio, con la natura, col verde, non è però sufficiente a farci accettare molti degli esempi che abbiamo sotto gli occhi e che non basterebbero a liberarci da quei «building» che purtroppo dilagano ovunque. Non c’è dubbio, pertanto, che percorrendo gli sterminati spazi dell’Arsenale e dei Giardini, molti degli allestimenti e delle installazioni fanno pensare piuttosto a una «Biennale dell’arte» che a una rassegna architettonica; eppure ritengo che come «lezione» questa edizione possa risultare utile se non altro come ammonimento verso l’eccessiva glorificazione odierna di progettazioni avveniristiche spesso eccessivamente reclamistiche di se stesse. Anche se, tutto sommato, il fatto di non poter controllare quelle che sono state le molte recenti vicende costruttive costituisce una lacuna inemendabile: la Biennale dovrebbe permettere anche ai non specialisti di rendersi conto dell’enorme evoluzione (e anche involuzione) dell’attuale arte del costruire soprattutto in un’epoca di grandiosi sviluppi urbanistici come l’attuale. L’assenza di questa possibilità è una delle più gravi lacune di questa rassegna anche perché nega al grande pubblico la conoscenza delle più recenti realizzazioni di molti grandi autori da Piano a Hollein da Calatrava a Rogers da Botta a moltissimi altri. Mentre i pochi casi di progettazioni effettive presenti in alcuni padiglioni stranieri sono senz’altro deludenti (penso al padiglione dell’Inghilterra; al «frutteto» della Germania, per non fare che due nomi), non basta la leggiadra decorazione plastica del Giappone a sostituire degli esempi di autentica architettura. In definitiva, credo che il risultato dell’odierna rassegna possa essere proprio quello di ricondurci alla valorizzazione del singolo edificio, e della singola pianificazione urbana; perché già la considerazione di alcuni dei pochi progetti esposti (dal modesto padiglione inglese a quelli del Sudamerica, ecc.) ci dice come è soltanto l’edificio realizzato, e non solo progettato, a permetterci una sua sicura valutazione. Perché è soprattutto il rapporto spaziale, interno ed esterno; il valore dell’invaso, e quello intervallare con l’esterno che lo circonda; nonché la identità del materiale usato, «toccato con mano» (penso allo sgradevole effetto tattile del Forum di Barcellona di Herzog & de Meuron, o a quello gradevole dell’aeroporto Barajas di Rogers a Madrid) e la «virtualità» spaziale nonché la trasparenza (penso alla nuova Fiera milanese di Fuksas) a consentirci, non solo una valutazione semantica o «lirica», ma a permetterci la constatazione di quella «valenza percettologica» che costituisce, non nonostante tutto, la vera identità d’un’opera architettonica. Frontiere L’installazione (con nudo) dello svizzero Philippe Rahm. Un’opera ispirata ai giocattoli dell’americano Greg Lynn e, qui sopra, il Padiglione della Finlandia con «Ecotopedia - walk the talk» Equilibri Un grande blocco di poliuretano, rivestito in poliestere, con all’interno profondi solchi che tracciano circonvallazioni, quartieri, parchi e strade: è «Equilibrio dinamico della città in divenire» di Giampietro Carlesso. E’ l’installazione proposta in Biennale dal Comune di Milano e rappresenta le trasformazioni urbanistiche nel futuro della città