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 2008  settembre 15 Lunedì calendario

l’Unità, lunedì 15 settembre Difficile risolvere i nuovi problemi quando i vecchi problemi sono ancora lì

l’Unità, lunedì 15 settembre Difficile risolvere i nuovi problemi quando i vecchi problemi sono ancora lì. Oggi a Santiago del Cile i presidenti dei paesi latino americani si incontrano per affrontare la crisi che fa tremare Evo Morales. Proposta di Chavez; convocazione urgente di Michelle Bachelet. Tutti d’accordo nel difendere l’integrità della Bolivia con imbarazzo per lo show di Chavez: insulti e parolacce contro gli Stati Uniti i quali hanno delegato Brasile e Cile a far da pompieri. Diplomaticamente troppo lontani, ormai, dall’ex giardino di casa. Se Europa e America difendono la Georgia dalle autonomie organizzate da Mosca, automaticamente si mettono contro alle autonomie delle province petrolifere e prospere che aprono la crisi di La Paz. Tropici lontani che gas e petrolio riuniscono nello stesso teorema. Il timore è che le violenze accendano altre violenze e nuove reazioni. Tentazione proclamata dall’opposizione a Maracaibo e in ogni città con petrolio del Venezuela. Il 28 settembre il presidente dell’Ecuador, Correa, affronta il referendum che cambia la costituzione. E Quayaquil, capitale degli affari e dell’elaborazione politica, metropoli prospera da sempre in competizione con la capitale burocratica, Quito, annuncia che si opporrà al referendum. Nel caso il «no» dovesse localmente prevalere, Quayquill si considererà regione autonoma. Il presidente Correa va a Santiago per prevenire i guai. Anche chi cerca di spegnere il fuoco ha strategie diverse. Lula appoggia Morales con la cautela di chi governa il paese guida dell’America Latina. Ormai potenza petrolifera (nuovi giganteschi giacimenti sono stati scoperti davanti a Rio dopo quelli nel mare di Santos), il Brasile non aderirà all’Opep. Lula vuole avere mani libere per controllare la rete energetica del continente, ma non solo. una delle diversità che vuole segnare con Chavez. La divisione da approfondire è ancora più larga: quale tipo di sinistra conviene alla regione per resistere alle pressioni economiche degli Stati Uniti? Rossa Chavez, o rosa Lula? Cile, Perù, Uruguay, Honduras d’accordo con la dottrina soft di Lula: arrivare al risultato senza proclami. Bolivia, Cuba, Nicaragua e un Ecuador più sfumato, dalla parte di Chavez. Il Paraguay dell’ex vescovo Lugo e Argentina della signora Kirchner, a mezza strada. La Colombia, ultimo caposaldo della dottrina Bush in America Latina, si allineerà e anche il Messico non può fare diversamente. Insomma, tutti impegnati ad evitare lo smembramento della Bolivia. Ridiscutere i confini distruggerebbe economie che faticosamente si rialzano, ma 250 milioni di persone sono ancora sotto o sul filo della fame. L’impressione è che scontri, violenza, resistenza e ambasciatori mandati a casa, siano assaggi provvisori in attesa del nuovo signore della Casa Bianca. Chavez si è affrettato ad annunciarlo: senza ambasciatori ma i commerci non cambiano. Gli Usa sono il grande cliente e il grande venditore che riempie le vetrine di Caracas. L’uno non può fare a meno dell’altro. Come il rame in Cile, e il petrolio in Venezuela, il gas è il tesoro che fa gola in in Bolivia. E il passato non risolto si riaffaccia più o meno con le stesse figure. Sanchez Losada presidente deposto cinque anni fa dalla rivolta popolare guidata da Evo Morales, lo stava svendendo al consorzio dei soliti nomi. Riserve immense, seconde nelle americhe solo al Venezuela ed un consumo nazionale che il sottosviluppo mantiene talmente basso da programmare l’inutile indipendenza energetica per 1253 anni. Meglio esportarlo per far cassa e tentare una restaurazione sociale al momento disperata. Sanchez Losada godeva di doppia cittadinanza: Stati Uniti e Bolivia. Aveva scelto per portare fuori il gas transnazionali i cui nomi brillano nella Washington di Bush: Ray Hunt proprietario di Hunt Oil e Kellog Brown Root, amministratore della Halliburton, grande finanziatore delle due campagne repubblicane, oggi ombra di MacCain. Le spese per far arrivare il gasdotto al Pacifico dovevano pesare sul governo boliviano. Prevedevano retribuzioni diverse per le braccia che scavavano: trenta per cento in meno agli indios, cinquanta per cento in meno se erano donne. Cinque anni fa, come oggi alla conferenza di Santiago del Cile, Lula e i Kirchner dell’Argentina, avevano fermato gli Stati Uniti che annunciavano un intervento armato per sostenere «la legittimità del governo minacciato». Non conviene, situazione esplosiva. Fame e disuguaglianze medioevali. La disperazione degli otto milioni di persone riguarda la spoliazione sistematica di ogni risorsa (perfino l’acqua del lago Titicaca, quasi prosciugato dallo sfruttamento di un’impresa americana) mentre attorno l’emarginazione non cambia e le rivolte finiscono nei massacri. L’ultimo massacro alla vigilia della fuga di Sanchez Losada. Il ministro della difesa ordina di sparare sui contadini in marcia verso La Paz: 83 morti. Tre mesi fa è stato rinviato a giudizio per genocidio. L’ambasciatore Usa, Phillip Goldberg, lo avverte in tempo raccomandando a Washigton di concedergli lo stato di «profugo politico per ragioni di umanità». Come in Venezuela, Amazzonia, Perù, Colombia, le oligarchie hanno moltiplicato le proprietà inglobando enormi terreni demaniali, scacciando quetchua e aymara scesi dell’altipiano per sopravvivere alla carestia. Fino all’arrivo di Morales nessuno aveva considerato questa disperazione. Ecco perché all’ultimo referendum il presidente ha raccolto il 67 per cento di consensi. Ed è il paradosso: più Morales è popolare, più le minacce di secessione crescono. Una spiegazione c’è. La pianura d’Oriente dove sgorga il gas è culla dei generali e dittatori da sempre al governo del paese. Nel 1980 Santa Cruz ha finanziato con 4 milioni di dollari il coca-generale golpista Garcia Mesa. Alla riunione che ha deciso di rovesciare il presidente di La Paz, era presente Edwin Gasser, grande zuccheriere, famiglia di profughi di Hitler e dirigente della Lega Anticomunista Mondiale. Portavoce delle rivendicazioni autonomiste delle province della mezza luna, è stato nominato un anno fa Branko Marinkovic, famiglia profughi ustascia. una cultura radicata nel passato prossimo quella che nutre la bande armate dei nostri giorni. Klaus Barbie, gestapo francese e specialista nella tortura, ha vissuto da tecnico ben retribuito dai servizi boliviani. Abitava una villa sopranominata «la casa di Klaus». Se la polizia di Santa Cruz doveva far parlare qualcuno che non parlava - sindacalisti o maestri o agitatori di popolo - chi interrogava si arrendeva: «Portalo a prendere un caffè da Klaus». Considerandone esperienza negli intrighi, dopo il golpe che lo ha reso presidente, il generale Banzer Suarez (di Santa Cruz) lo vuole consigliere per le operazioni speciali. Santa Cruz è anche la città dove ha imperato Stefano Delle Chiaie, pendolare tra Pinochet e le oligarchie boliviane bisognose di milizie disposte a tutto. Quando i carabinieri italiani lo cercavano per le stragi di casa nostra e gli si sono stretti attorno, Delle Chiaie è riuscito a scappare: nella sparatoria ( ottobre ”80 ) muore un altro neofascista italiano, Pier Luigi Pagliai. Bar e caffè di Santa Cruz, dove cresce la gioventù bianca che parla inglese, accendono insegne che dicono qualcosa: Bavaria, Boemia, Croce di Ferro. Pareti coperte da svastiche o Mussolini con l’elmetto, oppure i nomi insulsi di ogni sabato sera che dura sette giorni o le luci blu del night Marmelada dove la dose coca cristallo costa un dollaro e cinquanta centesimi. I ragazzi neri italiani sono stati pescati lì. In quegli anni ”80 sono andato a Santa Cruz per incontrare il trafficante più ricercato del mondo: Alvaro Gomez Suarez, cugino del generale presidente Banzer Suarez. Mi viene a prendere un giovanotto, scarpe italiane, piccola Beretta alla cintura. Avvocato con laurea a New York. Ha passato qualche mese a Roma, addetto culturale nell’ambasciata della Santa Sede. Anche il nome fa capire qualcosa sulla cappa che schiaccia città, politica, giornali, radio, televisioni. Si chiama Alfonso Antelo. cugino del capitano Antelo che mi ha convocato al comando di polizia per un interrogatorio surreale. Ed è fratello di Tito Antelo, pilota personale di don Roberto Gomez Suarez, e nipote di Salvador Antelo, senatore a La Paz. Quando finalmente incontro il signore dell’intervista, incontro un signore giacca e cravatta come l’Al Pacino del Padrino. Per essere lasciato in pace aveva proposto al presidente cugino di saldare l’intero debito estero del paese (8 milioni e mezzo di dollari) ma l’ordine di cattura doveva essere dimenticato. Questa la ragnatela sempre più potente: protegge dalla legalità di Evo Morales le province in rivolta. Il 50 per cento dell’energia necessaria alle grandi industrie di San Paolo viene da queste regioni. Senza il gas boliviano l’Argentina batte i denti e li batte anche il Cile. La grande macchina è nelle mani di tecnici brasiliani e del nostro mondo o ladinos dal sangue mescolato. Gli indigeni sono ombre che non contano. Emigranti interni scesi dall’altipiano dopo la chiusura delle miniere. Braccia per l’agricoltura. Emarginati come è impossibile immaginare. La prima strada asfaltata ha rallegrato la città un po’ prima degli anni quaranta e gli abitanti si moltiplicavano perché arrivavano dall’Europa schiacciata dagli stivali di Hitler. Appena la guerra finisce nuove facce bionde invadono Santa Cruz. Sono le facce degli «altri»: perseguitavano gli ebrei e li ritrovano qui. Si sfiorano, non si parlano. Paura e silenzio. Divisi per sempre. Vengono sepolti in due cimiteri diversi. Un angolo del cimitero di tutti è riservato agli israeliti. Dall’altra parte del muro, nell’altro camposanto, lapidi dalle epigrafi gotiche ricordano «l’onore, il coraggio, l’abnegazione di chi si è sacrificato per il grande Reich». Dirimpetto a dove dormono gli ebrei, i nomi cambiano ancora. Nomi croati. Anche la fuga degli ustascia alleati di Hitler e Mussolini si è fermata qui. Santa Cruz ha un milione e 500 mila automobili, metà girano senza targa. Attraversano la frontiera del Brasile in un contrabbando illuminato dai riflettori delle polizie che fanno finta di niente. Babele di lingue. Portoghese dei brasiliani, spagnolo argentino, inglese, francese, tedesco. Folle trincerate nelle roccaforti delle multinazionali, colletti blu stranieri che danno una mano ai signori decisi ad inventare uno stato indipendente e a vendere gas e petrolio agli amici. Nascoste nei gironi di sigle ermetiche e imprese dai nomi esotici, le famiglie restano le stesse. E gli indigeni che si aggrappano a Morales continuano ad avere la stessa paura. Maurizio Chierici