Enzo Bettiza, La Stampa 17/9/2008, 17 settembre 2008
Ma chi te lo ha fatto fare?». Con questa battuta, tra seria e stupefatta, terminava una telefonata del presidente Bush al neopresidente Medvedev nelle ore i cui gli irruenti blindati russi, sbaragliato il blitz georgiano in Ossezia, puntavano già i loro cingoli e cannoni verso Tbilisi
Ma chi te lo ha fatto fare?». Con questa battuta, tra seria e stupefatta, terminava una telefonata del presidente Bush al neopresidente Medvedev nelle ore i cui gli irruenti blindati russi, sbaragliato il blitz georgiano in Ossezia, puntavano già i loro cingoli e cannoni verso Tbilisi. I primi cento giorni del «liberale» Dmitry Medvedev si concludevano così con un battesimo del fuoco che potremmo definire insieme avventuroso e storico. Avventuroso perché gli stati maggiori russi avevano teso una trappola all’imprevidente Saakashvili, sorprendendo le sue truppe con un contrattacco da tempo preparato e ben organizzato nella metà settentrionale dell’Ossezia; storico perché, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, è stata questa la prima sortita aggressiva dell’esercito della Federazione russa contro uno Stato, il più importante del Caucaso, riconosciuto a pieno titolo sovrano dalla comunità internazionale. Non sappiamo quello che Medvedev abbia risposto alla provocatoria domanda del suo omologo americano. Ma non si reca grande offesa alla realtà immaginando che avrebbe potuto replicargli: «La spinta all’intervento armato mi è stata suggerita da tre fattori concomitanti. Anzitutto il calcolo militare sbagliato del tuo servo di Tbilisi, poi lo scatto infallibile del mio capo di governo Putin, infine la paralisi della tua stessa presidenza, declinante in un’America che non ha saputo vincere fino in fondo le guerre in Iraq e Afghanistan e ora rischia di perderla perfino a Wall Street». La Grande Russia, quella invocata e ricostruita dal 2000 in poi da un oscuro ufficiale del Kgb, ha mostrato insomma per la prima volta i denti all’Occidente ed esibito i suoi muscoli, non solo petroliferi, nel momento di maggiore precarietà e immobilità dell’amministrazione degli Stati Uniti. Non si possono fare paragoni tra il debole impatto internazionale della pur lunga crisi cecena, feroce guerriglia di polizia all’interno dei confini russi, e l’allarmante connotato di svolta e di ricaduta al di là dei confini russi della breve guerra d’agosto in Georgia. La sua brevità è stata inversamente proporzionale ai danni già prodotti e che potranno ripetersi a dimensioni più vaste e pericolose. Ne potranno infatti risentire, inasprendosi, i rapporti già tesi tra l’imperiale Russia putiniana e altre repubbliche ex sovietiche, come i Paesi baltici membri dell’Unione Europea, o un importante ex satellite come la Polonia oggi testa di ponte dell’Unione e della Nato verso l’Est. Non a caso perfino la semindipendente Bielorussia, una volta saldamente integrata nell’Urss, tuttora legata per mille canali energetici e politici a Mosca, ha fatto giungere con imbarazzo un tardivo borbottio d’assenso al Cremlino per i colpi inflitti all’integrità delle esplosive frontiere caucasiche. In tal senso, la rapida guerra contro Tbilisi, culminata in due amputazioni di sovranità con l’Ossezia e l’Abkhazia militarmente occupate e annesse, è stata qualcosa di più d’un semplice conflitto armato: è stata anche una sorta di metafora segnaletica, una prefigurazione simbolica di quello che, un domani forse non lontano, potrebbe accadere all’Ucraina e poi, via via, con la tattica del salame, alla Bielorussia, alla Moldavia, all’Azerbaigian, all’Armenia, a una cinquina di repubbliche centroasiatiche. Pure qui le nutrite minoranze russe potrebbero giocare, in un analogo caso di Anschluss strisciante, un ruolo di quinte colonne come i collaborazionisti osseti o abkhazi russificati. Sarebbe la riconquista dei vecchi territori zaristi, ai quali Putin essenzialmente mira, e anche la fine della farsa di copertura, surrogata nel 1991 al posto dell’Urss, che venne rubricata come «Comunità degli Stati Indipendenti» di cui non si conobbe mai né il funzionamento istituzionale né l’utilità pratica. Ma la preda più concupita, che da un momento all’altro potrebbe scatenare la caccia grossa da parte dei diarchi del Cremlino, resta l’Ucraina spaccata quasi a metà tra una fortissima minoranza di russi o russofoni orientali, e l’ondivaga maggioranza europeista degli ucraini occidentali. I georgiani per esempio non appartengono all’etnia slava, anzi oggi come ieri le si oppongono. Ma basta un solo cenno per centrare la vulnerabile storia di questo Stato d’antichissima e gloriosa slavità. La Russia le deve se stessa poiché nacque dalla medievale Rus’ di Kiev. L’Unione Sovietica, che ne sterminò la «razza contadina», tuttavia le deve l’alto contributo che essa diede alla nomenklatura dei diplomatici, dei militari, dei capi della Ghepeù, dei pianificatori dell’industria pesante, fino ai rilevanti nomi storici di un Kruscev o un Breznev. Ecco perché l’indipendenza ucraina non è mai stata accettata psicologicamente dai russi sul piano etnico e culturale. Il «moscovita» qui non è «di casa»: è in casa. Su 45 milioni di abitanti circa 10 sono di etnia russa, molti con passaporto russo. Da qualche tempo la pietra dello scandalo, la scintilla di una crisi non più occulta, è la penisola di Crimea, blasone letterario e bellico della Russia; ucraina dal 1954, la Crimea è non solo popolata in gran parte da russi, ma ospita a Sebastopoli la flotta russa del Mar Nero che dovrebbe restarvi «in affitto» sino al 2017. Qui è il punto più caldo di un contenzioso in parvenza contrattuale, in realtà politico, che coinvolge in prima persona il presidente ucraino Jushchenko. Egli, non osando per ora imporre brutalmente lo sfratto alla flotta, esige però da Mosca un aumento decuplicato in petrodollari dei costi d’affitto. E da Mosca gli hanno già risposto per le rime, nella maniera più dura e più sorniona, mettendogli contro un’alleata tradizionale: la famosa signora dalla treccia arrotolata, Julia Tymoshenko, la pasionaria della rivoluzione arancione, che dalla sua carica di primo ministro ha continuato, durante il dramma georgiano, a gettare sull’ex compagno di barricata l’accusa di corruzione e d’irresponsabilità populista. Ha addirittura bloccato una mozione parlamentare di condanna dell’aggressione russa alla Georgia; Jushchenko l’ha accusata a sua volta di «alto tradimento» quale agente al soldo del Cremlino. La Crimea, combinata con la deviazione russofila della Tymoschenko, costituisce indubbiamente nelle mani di Putin un combustibile ad alto potenziale. L’ennesima crisi di governo, già in atto con probabili elezioni parlamentari, è al tempo stesso una cocente crisi dell’identità nazionale. La cosa peggiore, che poteva toccare ai patrioti ucraini, era quella di vedere l’eroina della rivoluzione indipendentista dare la mano, sotto o sopra il banco, agli irredentisti russi mobilitati dall’uomo di Mosca Viktor Janukovich. Il presidente Jushchenko in difficoltà, dopo essere andato a Tbilisi a sostenere l’amico Saakashvili, ha quasi implorato i ministri degli esteri europei di concedere all’Ucraina lo status di candidata all’Unione; ma gli europei lo hanno scoraggiato concedendogli soltanto, come al presidente serbo Tadic, la promessa di un vago associazionismo tecnico. Tirando le somme, vediamo che mentre la crisi caucasica provocava da parte europea interventi notarili più che politici, inducendoli a calare sulla latente crisi ucraina una coltre d’attendismo, la Russia già covava, dopo il castigo inferto a Tbilisi, il pretesto o i pretesti per infliggerne uno forse più duro all’Ucraina. L’escalation alla riconquista dell’impero è adesso in pieno moto, e la forzata assenza elettorale dalla scena degli Stati Uniti non fa che accelerarne i tempi e affinarne i modi. Con ogni probabilità, non dovremo neppure aspettare il prossimo presidente americano per vedere su chi, dopo Saakashvili, piomberà il secondo colpo della diarchia moscovita ormai lanciata all’attacco con fiumi di perolio, orde di blindati e acquisti di alleati nuovi e spregiudicati all’Est come all’Ovest.