Lucio Caracciolo, la Repubblica 15/9/2008, pagina 14, 15 settembre 2008
la Repubblica, lunedì 15 settembre «Chi te lo fa fare? Sei un presidente giovane, liberale, a che ti serve tutto questo?»
la Repubblica, lunedì 15 settembre «Chi te lo fa fare? Sei un presidente giovane, liberale, a che ti serve tutto questo?». Mentre i tank di Mosca, respinto l´attacco georgiano in Ossezia del Sud, erano in vista di Tbilisi, George W. Bush si rivolgeva quasi paternamente al suo omologo russo, in carica da nemmeno cento giorni. A raccontarlo è lo stesso Dmitri Medvedev. Siamo nel salone delle feste dei magazzini Gum, affacciato sul mausoleo di Lenin. Intorno al tavolo, un gruppo di giornalisti ed esperti americani, europei e asiatici, riuniti dal Club Valdai per quattro giorni di incontri informali con i principali leader russi, a cominciare da Putin e dallo stesso Medvedev. «Ho risposto a Bush che non è che io avessi bisogno di fare qualcosa, ma ci sono situazioni in cui l´immagine non conta nulla e l´azione efficace è tutto», continua Medvedev. E tiene a farci sapere di aver smontato il suo interlocutore: «In questo contesto tu avresti fatto lo stessa cosa, forse più duramente, gli ho detto. Lui non mi ha replicato». Molti, anche in Russia, considerano Medvedev un passacarte di Putin. Non ha né potrà forse avere l´autorevolezza del suo mentore, il restauratore dell´impero russo. Ma la sua performance da comandante in capo delle Forze armate durante la vittoriosa campagna di Georgia ne ha innalzato la statura. E poi il Cremlino conferisce a chiunque vi si insedi un´aura regale. Fatto è che in poche settimane il gradimento popolare del neopresidente è notevolmente cresciuto. E lui se lo sente addosso: "Dopo il Caucaso ho acquistato una migliore comprensione delle cose, quest´esperienza mi ha dato più sicurezza". Medvedev ha preso gusto al potere, e si vede. Non è affatto scontato che stia lì per scaldare la poltrona in vista del ritorno del leader massimo. Quale che sia la dinamica psicopolitica di questo strano consolato, la squadra di Putin sembra piuttosto compatta. E univoca nel messaggio al mondo esterno. Medvedev lo riassume così: "L´8 agosto per la Russia è stato un po´ come l´11 settembre per l´America. Quando la Georgia, appoggiata da un grande Stato che vuole fissare le regole del gioco internazionale, ha cinicamente attaccato l´Ossezia del Sud e ha sparato sui nostri peacekeepers, il mondo è cambiato e sono cambiate le nostre priorità". Ne deriva il concetto di fondo, martellato dai leader russi, da Putin in giù, durante tutte le nostre conversazioni: la Russia è stanca. Vent´anni di umiliazioni, per un colosso di antico lignaggio imperiale, sono troppi. Non ci volete nella vostra famiglia? Pazienza, ce ne costruiremo una nostra, insieme ad amici vecchi e nuovi. Non solo con i vicini postsovietici, ma anche con i governi amici nel mondo arabo, in Asia, America Latina e Africa, che negli anni Novanta abbiamo trascurato. Finché non vi accorgerete che il mondo non può essere retto da un solo paese, che la Nato appartiene alla storia e che urge una nuova architettura di sicurezza eurasiatica, basata sull´equilibrio della potenza e su regole condivise. Quando ci riceve a tavola nel centro termale Rus´, a Soci, Putin non ha ancora smaltito l´irritazione per il modo in cui la stampa occidentale ha in genere riferito della guerra. "Sono sorpreso di quanto potente sia la macchina propagandistica del cosiddetto Occidente", esordisce. Più che la rabbia per come i nostri media hanno coperto la guerra del Caucaso, scatenata dall´innominabile Saakashvili (sul quale Medvedev avrà parole sprezzanti, dandogli del drogato - "sappiamo che prende narcotici"), conta il giudizio sulla crisi del blocco che ha vinto la guerra fredda. "L´Occidente non è omogeneo, non è un monolite. Le decisioni unilaterali americane lo stanno distruggendo. Nessuno ne può più di questo modo di agire". Putin non avrebbe spedito i suoi tank fino a 15 chilometri da Tbilisi ("l´avremmo potuta prendere in quattro ore, se avessimo voluto") se non fosse stato convinto della debolezza americana e delle divisioni nel campo euroatlantico. Attaccando i russi nel momento di massima confusione a Washington, nella fase terminale di un´amministrazione allo sbando, Saakashvili ha offerto a Putin non solo l´opportunità di sfogare sui georgiani le frustrazioni accumulate per anni, ma di far emergere le fratture fra europei occidentali, sensibili alle ragioni russe, e quella parte dell´establishment americano per cui la Russia è solo una riedizione dell´Urss. E a chi rimarca la sproporzione fra attacco georgiano e reazione russa, Putin replica: "E che avremmo dovuto fare, tirare con la fionda?". Ma il premier non ha alcuna intenzione di rompere con il "cosiddetto Occidente", semmai di far leva sulle sue contraddizioni. Il dimezzamento degli investimenti esteri in Russia quest´anno, rispetto al 2007 (da circa 80 a 40 miliardi di euro), deve preoccuparlo: "Siamo consapevoli del nostro potenziale. Non facciamo rumore di sciabole". La Russia non vuole né può isolarsi. Cerca "una partnership su basi paritarie". Certo, osserva Putin accennando alla veranda, affacciata sul Mar Nero, "la flotta Usa a dieci miglia di qui è un bell´esempio di trattamento equanime dei partner". Putin tiene a distinguere tra Bush, o meglio "George", e i suoi "falchi", a cominciare da Cheney. Lui come tutti i dirigenti russi sembra convinto che a scatenare i georgiani in Ossezia del Sud sia stata l´ala dura dell´amministrazione, forse all´insaputa del presidente: "Le mie relazioni con George sono veramente buone. Lo rispetto e lo considero una persona onorevole". Per concludere ironico: "Ho sempre trattato George meglio di molti americani". Putin ricorda l´improvvisato incontro di Pechino, la notte dell´attacco georgiano su Tskinvali, quando di fronte alle sue proteste Bush gli assicurò: "Nessuno vuole la guerra". Il premier russo si aspettava che l´amico George avrebbe fermato Saakashvili. Ma evidentemente nell´amministrazione hanno prevalso i falchi: "La corte fa il re e la corte non voleva che lui fermasse i georgiani". Uno dei suoi più stretti collaboratori soggiunge: "Condy Rice ci aveva assicurato che se Saakashvili avesse tentato di risolvere con la forza la questione ossetina si sarebbe potuto scordare l´ingresso nella Nato. E invece...". Al fondo, Putin e Medvedev non riescono a emanciparsi dall´ombra dell´Unione Sovietica. Sono consapevoli di essere percepiti da molti occidentali, tra cui almeno uno dei due candidati alla Casa Bianca, come gli eredi di Lenin e Stalin. "Liberatevi dei sovietologi, ce ne sono ancora troppi in giro. Non si può capire la Russia con le categorie della guerra fredda", ammonisce il presidente, "perché noi ci fondiamo su un sistema di valori completamente diverso". Lui che aveva 25 anni quando lo stendardo con falce e martello fu ammainato al Cremlino, non ha nostalgia del passato: "Io nell´Urss mi annoiavo". E Putin, che pure ha definito il crollo dell´Unione Sovietica "una catastrofe geopolitica", specifica: "Io sono un conservatore, ma non nel senso che i comunisti davano al termine". Dicono che in quel momento, sulla Piazza Rossa, la salma di Lenin abbia avuto un fremito. Lucio Caracciolo