Mario Deaglio, Mario Deaglio, La Stampa 16/9/2008, pagina 1, 16 settembre 2008
La Stampa, martedì 16 settembre Di fronte al grande terremoto delle Borse mondiali, la crisi dell’Alitalia può sembrare una tempesta in un bicchier d’acqua e su un altro pianeta
La Stampa, martedì 16 settembre Di fronte al grande terremoto delle Borse mondiali, la crisi dell’Alitalia può sembrare una tempesta in un bicchier d’acqua e su un altro pianeta. I debiti di Lehman Brothers ammontano a 613 miliardi di dollari, quelli di Alitalia a 3-4 miliardi di euro; i dipendenti di Lehman Brothers sono stati licenziati su due piedi, senza liquidazione e con pochi diritti, costretti a portar via rapidamente dalla sede i loro effetti personali in scomodissimi scatoloni di cartone. Per gli «esuberi» dell’Alitalia è comunque previsto il «paracadute» della mobilità, a conferma della superiorità sociale dei modelli europei. Le vicende Alitalia e Lehman Brothers presentano però molti aspetti in comune. Entrambe sono il risultato di «crisi di sistema» che stanno scuotendo il capitalismo finanziario e sulle quali è bene riflettere perché la loro corretta individuazione è alla base di qualsiasi discorso politico che non voglia essere una sterile rivisitazione del passato. Le «crisi di sistema» implicano che le regole, che avevano funzionato in maniera soddisfacente fino a ieri, oggi non funzionano più. Grazie a queste regole, sia pure in contesti diversissimi, Alitalia e Lehman Brothers hanno potuto continuare ad accumulare debiti: a Lehman Brothers li ha prestati il mercato nella convinzione che la capacità tecnica di quest’istituzione finanziaria avrebbe continuato a produrre utili miracolosi; all’Alitalia li prestavano soprattutto i fornitori e, attraverso il Tesoro, la generalità dei cittadini italiani, nella convinzione che, dietro la «bandiera», la mano pagatrice dello Stato avrebbe sempre magicamente aggiustato tutto. Le «crisi di sistema» emerse con la vicenda Alitalia sono essenzialmente due e entrambe si rispecchiano nell’accordo, dalla firma tanto sofferta. Tale accordo si distingue nettamente da quelli di altre vertenze complicate non tanto per i tagli dei posti di lavoro (purtroppo negli ultimi anni molte controversie industriali si sono chiuse con una riduzione nel numero dei lavoratori) quanto per le riduzioni salariali. Accettare decurtazioni nella paga nell’ordine del 10-20 per cento in un momento in cui è molto diffusa la percezione dell’inadeguatezza generale dei salari è difficilissimo per il movimento dei lavoratori: del continuo incremento dei livelli salariali e del livello di vita, infatti, esso aveva fatto l’obiettivo principale di lungo periodo, addirittura uno dei suoi principali paradigmi. Eppure la struttura dei costi è abbastanza chiara e non lascia dubbi che attraverso queste forche caudine bisogna comunque passare se si vuole che in Italia esista ancora una linea aerea (medio)-grande. Il secondo paradigma è quello della sostanziale unità dei lavoratori nelle controversie occupazionali. Con il passare dei giorni si sono viste differenziazioni sempre più nette, al limite dello scontro di piazza, tra i sindacati confederali - poco presenti nel settore ma forse i soli in grado di garantire una presenza a tutto tondo al tavolo delle trattative -, i sindacati «minori» del settore che raggruppano lavoratori con professionalità specifiche spesso elevate, come i piloti e gli assistenti di volo, e infine i precari che, proprio in quest’occasione, sembrano aver acquisito qualche consapevolezza della loro identità e della specificità dei loro interessi. I sindacati dei piloti, in particolare, hanno accusato le controparti e gli altri sindacati di «irresponsabilità» e paiono rivendicare una posizione centrale, grazie al carattere indispensabile del proprio lavoro perché senza piloti gli aerei non possono volare. Questa posizione mostra quanta poca attenzione il mondo italiano del lavoro, soprattutto nel settore del trasporto aereo, abbia rivolto agli sviluppi internazionali. La globalizzazione ha cambiato anche il mestiere dei piloti, dei quali sembra esserci una certa sovrabbondanza. forse opportuno citare il caso di Delta Airlines, la terza compagnia aerea degli Stati Uniti, finita in regime prefallimentare, equivalente all’incirca alla nostra amministrazione controllata: per «salvare» la società, nel 2004 i piloti della Delta - oltre seimila, da sempre i meglio pagati del settore - accettarono un taglio salariale del 33 per cento, mentre per gli altri dipendenti si concordarono riduzioni del 7-9 per cento. I dirigenti accettarono una riduzione del 15 per cento e l’amministratore delegato vide la propria paga ridotta del 25 per cento. Nel 2006 i piloti accettarono ulteriori diminuzioni della paga e dei programmi pensionistici, in quanto le perdite erano state ridotte ma non annullate. Tutte le altre grandi compagnie aeree americane hanno vissuto vertenze simili. Non si vuole naturalmente dire che tagliare le retribuzioni sia un bene, anzi. Occorre invece constatare che nel mondo attuale, con un differente modo di produzione la «vertenza sindacale» classica funziona sempre meno come fattore di distribuzione dei redditi, stimolatore di concorrenza, motore della crescita. Il futuro dell’Alitalia è molto importante, ma forse ancora di più è il rendersi conto che nelle vertenze sindacali bisogna abbandonare la tradizione, nei suoi riti e nella sua sostanza, e provare a inventare qualcosa di nuovo. Dall’ossessiva e sempre più difficile difesa del «posto di lavoro» occorre probabilmente passare, seguendo modelli applicati con successo in Scandinavia, alla difesa pura e semplice del «lavoro», al limite con una garanzia di lavoro per tutti, controbilanciata da una maggiore flessibilità. Mario Deaglio