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 2008  settembre 16 Martedì calendario

L a nostra lingua nazionale non è il risultato di una conquista territoriale (come il castigliano in Spagna) né si è imposta perché usata da una corte reale (come in Francia)

L a nostra lingua nazionale non è il risultato di una conquista territoriale (come il castigliano in Spagna) né si è imposta perché usata da una corte reale (come in Francia). Sono state le opere di tre grandi scrittori del Trecento, Dante, Petrarca e Boccaccio, ad essere prese spontaneamente a modello in tutta Italia, e perciò a far toscanizzare progressivamente i testi che prima si scrivevano nei diversi dialetti. Questo tipo di affermazione di natura letteraria e autonoma ha condizionato tutta la storia successiva: l’italiano è stato, prima del Novecento, lingua più scritta che parlata, lingua dei colti più che della maggioranza di analfabeti dialettofoni, lingua storicamente stratificata più che animata dal dinamismo di strati sociali e di livelli espressivi. Il processo di toscanizzazione si concluse nel Cinquecento con poeti come l’Ariosto (ferrarese) e il Sannazzaro (napoletano), che adottarono un linguaggio sostanzialmente e programmaticamente toscano, sulla linea di Dante e Petrarca. Sempre nel Cinquecento uno scrittore autorevole come il veneziano Pietro Bembo scrisse un’opera (le Prose della volgar lingua, del 1525) che teorizzò e fornì di regole precise gli usi linguistici tratti da Petrarca e Boccaccio, lasciando un po’ da parte Dante, troppo ribelle a qualunque norma. In questa fase di assestamento scesero in campo decine di teorici che difesero le loro convinzioni, discutendo se privilegiare il fiorentino o tener conto di altri dialetti toscani, se attenersi solo ai modelli trecenteschi o ricorrere anche all’uso quotidiano; o, ancora, valorizzando il fatto che nelle corti signorili si poteva ormai cogliere un esempio di lingua per tutti. La «questione della lingua» può parerci roba da eruditi e da grammatici; ma fu allora argomento attualissimo per dispute appassionate, amicizie e inimicizie, e diede occasione ad approfondimenti acuti. Tutti capivano che era in gioco il destino di un bene prezioso: la nostra lingua. Naturalmente poi operava anche il campanilismo, per esempio se il polemista era fiorentino o senese, il poter vantare che il proprio dialetto aveva costituito la fonte della lingua nazionale dava un senso di superiorità (la discussione tra fiorentini e senesi continua ancora oggi). in questo clima che incominciarono anche ad essere pubblicati i primi dizionari: il Luna, l’Accarisio, l’Alunno, dal 1536 in avanti, compilarono prima dizionari di singoli scrittori (naturalmente Dante, Petrarca, Boccaccio), poi guardarono a un àmbito più largo, sino al Memoriale della lingua volgare di Giacomo Pergamini, del 1601, che tiene conto di tutti i grandi trecentisti, e anche di moderni sino al Tasso. Nulla di paragonabile, però, al Vocabolario degli Accademici della Crusca pubblicato nel 1612 a Venezia da Giovanni Alberti, ora ripresentato in edizione anastatica in un monumentale, splendido volume di ERA Edizioni, Firenze-Varese, accompagnato da un volume di commento, a cura di Francesco Sabatini, Nicoletta Maraschio, Teresa Poggi Salani ed altri, nonché da un Cd-Rom con tutto il testo in edizione digitale e con un profilo di storia dell’italiano di Sabatini. Sabatini afferma che la pubblicazione del Vocabolario è importante come quella della Commedia e del Canzoniere. Forse non è eccesso di entusiasmo, se pensiamo che il Vocabolario fu il punto di riferimento, anche polemico, per tutto il successivo dibattito sulla lingua; e che, con le successive edizioni, seppe proporre un canone degli autori «di lingua», a partire da Dante (smentendo in ciò Bembo), ma con acquisizioni significative, come quelle dell’Ariosto e, più tardi, del Tasso. Oltre all’impressionante numero dei manoscritti utilizzati, e si sa che Firenze ne ospita migliaia, i compilatori hanno delimitato le aree dell’esperienza quotidiana da documentare, scelto il tono dell’esposizione, fissate le indicazioni linguistiche da fornire, deciso come trattare le parole derivate da altre, e così via. I vocabolari che tuttora consultiamo applicano ancora i medesimi schemi. L’idea di celebrare la gloria linguistica di Firenze risale a Cosimo I de’ Medici (1519-1574), grande fautore del volgare in tempi in cui si esaltava il prestigio del latino. Ma l’idea del vocabolario è del filologo e grammatico Leonardo Salviati (1540-1589), noto anche per la «riassettatura», cioè censura moralistico-religiosa, all’edizione del Decameron. Salviati era stato affiliato nel 1582 alla «Brigata dei Crusconi», un gruppo di letterati e giuristi, che si riuniva per cene e conversazioni dotte. Antiaccademici, dicevano di leggere in crusca, cioè «per burla, senza impegno», dato che la crusca è la buccia inutilizzabile che racchiude i semi di grano. Questa «Brigata» si trasformò in Accademia della Crusca nel 1584, e come tale s’impegnò presto a compilare il Vocabolario. E da quel momento la parola crusca simboleggiò gli elementi meno puri della lingua, quelli che gli accademici s’impegnavano a mettere al bando. Interessantissimo il modo di lavorare di questi linguisti. Ognuno faceva spogli sistematici dei testi che gli erano stati attribuiti nelle precedenti riunioni; poi presentava in seduta le definizioni proposte per ogni parola, e queste venivano discusse collettivamente, e sempre più perfezionate e ampliate. Maraschio e Poggi Salani danno qui materiali significativi, tratti dai verbali e dagli spogli. Non conosco, a questa altezza cronologica e su materia umanistica, casi analoghi di lavoro di équipe. Si noti che soltanto il Salviati era un «tecnico»; gli altri erano forti solo della loro competenza vissuta e della loro passione; i risultati furono eccellenti. Prima di allora, nulla di simile era stato nemmeno concepito. Lo riconoscono esplicitamente, profondendosi in lodi, i successivi vocabolari delle altre principali lingue nazionali: il Dictionnaire dell’Académie Française, del 1694, che cita come proprio modello il vocabolario della Crusca, e dice che esso ha «arricchito, valorizzato e perfezionato la lingua italiana»; il Vocabulario Portuguez e Latino di don Raphael Bluteau (1712-1728); il Diccionario dell’Accademia Reale di Spagna, del 1726-1739; il Dictionary of the English Language del dottor Samuel Johnson (1755), pieno di lodi per la Crusca, e il Deutsches Wörterbuch dei fratelli Grimm, iniziato a pubblicare nel 1852. Questa priorità del Vocabolario della Crusca è il segno dell’eccellenza dei nostri studi linguistici, e in particolare lessicografici. Allora ed oggi, dato che l’Accademia continua a svolgere preziose attività scientifiche e divulgative. Cesare Segre