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 2008  settembre 13 Sabato calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 15 SETTEMBRE 2008

C’era una volta una compagnia aerea che perdeva 25 mila euro l’anno per dipendente. Che aveva 5 aerei cargo sui quali si alternavano 135 piloti. Sergio Rizzo: «Mentre tutte le compagnie straniere, alle prese con le crisi, tagliavano il personale e riducevano i costi, all’Alitalia accadeva il contrario. Nel 1991, dopo la guerra del Golfo, si decisero 2.600 prepensionamenti. Poi arrivò Roberto Schisano, che diede un’altra strizzatina, e i dipendenti scesero nel 1995 a 19.366. Armato di buone intenzioni, Domenico Cempella nel 1996 li portò a 18.850. Nel 1998 però erano già risaliti a 19.683. L’anno dopo a 20.770. E nel 2001, l’anno dell’attentato alle Torri gemelle di New York, si arrivò a 23.478». [1]

Nonostante dal 1985 non arrivassero più aerei, fino al 1999 restò aperto a Città del Messico un ufficio Alitalia con 15 dipendenti. Per l’intero 2005 la compagnia prese in affitto 600 stanze d’albergo nei dintorni dell’aeroporto destinate agli equipaggi composti da dipendenti con residenza a Roma ma luogo di lavoro a Malpensa che restarono quasi sempre vuote. Rizzo: «Per non parlare della guerra sui lettini per il riposo del personale di bordo montati sui Jumbo, al termine della quale 350 piloti portarono a casa una indennità di 1.800 euro al mese anche se il lettino loro ce l’avevano. O dell’incredibile numero di dipendenti all’ufficio paghe del personale navigante, che aveva raggiunto 89 unità. Incredibile soltanto per chi non sa che gli stipendi arrivavano a contare 505 voci diverse». [1]

Secondo la versione ufficiale, nella notte tra giovedì e venerdì la trattativa per il salvataggio di Alitalia è saltata perché la Cai (Compagnia aerea italiana) chiedeva in cambio del contratto separato un aumento degli esuberi da 500 a 870. [2] Giuliano Cazzola, ex sindacalista ora vicepresidente della commissione Lavoro della Camera: «Tutti abbiamo pensato che la questione più delicata riguardasse il numero degli esuberi. La trattativa rischia di saltare sulle condizioni economiche. Del resto c’è il rischio che i lavoratori in mobilità percepiscano un reddito superiore di quelli che resteranno in forza alla Cai». [3] Roberto Mania&Claudio Tito: «La strategia di Colaninno e Passera non aveva previsto il peso dei piloti. Anzi, pensavano di aggirare il potere dei piloti proprio attraverso l’introduzione di un contratto unico e, dunque, con la costituzione di una rappresentanza sindacale non più frantumata in tante categorie». [4]

I piloti respingono le accuse. «Che volevano questi imprenditori Cai? Si sarebbero presi solo la parte produttiva della compagnia e avrebbero dismesso i settori meno strategici. Nonostante questo ci avrebbero decurtato gli stipendi. evidente che volevano fare un affare sulle nostre spalle». [5] Un reduce dal tavolo delle trattative: «Noi abbiamo portato la disponibilità a ridurre il salario attuale del 20% e ad aumentare la produttività del 15%. Di più non si può, per le regole internazionali del trasporto aereo. Ci hanno risposto che c’è un problema di filosofia». Francesco Piccioni: «Che è poi, banalmente, voler stabilire chi comanda. L’azienda stabilisce i paletti, i sindacati e i lavoratori si devono adeguare». [6]

Il sospetto è che il «muro insormontabile» di cui parlano Anpac e Up, le categorie sindacali che rappresentano i piloti Alitalia, potrebbe essere stato più di esuberi e stipendi la richiesta della Cai di ”normalizzare” le relazioni sindacali. Luca Fornovo: «Questa ”normalizzazione” potrebbe avere conseguenze ben precise e non di poco conto. Prima fra tutte quella di ridurre o quantomeno ridimensionare deleghe, poteri e influenza di chi rappresenta, talvolta come una casta, i piloti. Questo ridimensionamento passerebbe attraverso l’introduzione di un unico organo collegiale, un comitato di coordinamento sindacale che dovrebbe finire con il raggruppare tutte le nove sigle sindacali di Alitalia, a seconda del diverso numero degli iscritti». [7]

Perché in Italia esistano due sindacati autonomi dei piloti d’aereo, Anpac (che rappresenta 900 piloti) e Up (300 piloti), entrambi orientati verso il centrodestra, per i più rimane un mistero. Rizzo: «Tutto ha origine quando c’era ancora l’Ati. Quelli che guidavano gli aerei della compagnia domestica dell’Alitalia erano guardati come piloti di serie B e allora orgogliosamente presero le distanze dall’Anpac, fondando il sindacato che poi sarebbe diventato l’Unione Piloti. Da allora, i rapporti sono stati di forzata fratellanza. Differenze nelle piattaforme sindacali, praticamente nessuna: a parte qualche passato distinguo sui tempi della privatizzazione dell’Alitalia. E anche sulla tragedia della compagnia di bandiera, siamo più che altro alle sfumature». [8]

Passasse il piano Cai, Anpac e Up si troverebbero a dover pianificare le strategie sindacali insieme ai rappresentanti degli assistenti di volo o del personale di check in. Fornovo: «Insomma niente più contrattazione individuale. Quindi, non solo le loro deleghe sarebbero depotenziate, ma pure i loro poteri. Non è un mistero che Anpac e Up abbiano spesso giocato un ruolo importante nella gestione dei piloti, esercitando talvolta anche un certo grado di influenza su assunzioni, promozioni fino ai trasferimenti di personale da un aeromobile all’altro. Influenze che spesso potrebbero aver condizionato anche la produttività del lavoro e che hanno avuto un costo abbastanza salato che difficilmente la nuova compagnia, che nascerà dalle ceneri di Alitalia, potrebbe riuscire a sostenere». [7]

«La casta non siamo noi» dicono i piloti. L’anno scorso quelli della compagnia di bandiera hanno guadagnato da un minimo di 68.000 a un massimo di 121.000 euro. Roberta Amoruso: «Un livello che raggiunge la forchetta 88.000-174.000 per quanto riguarda i comandanti. Per la più piccola Air One i 340 piloti hanno guadagnato in media tra i 55.000 euro e i 155.000 euro. Ma come si fa a paragonare i numeri della compagnia di Carlo Toto, ”tra i peggiori in Europa” con quelli di Alitalia?, ribattono dall’Anpac. Il paradigma è l’Europa dei francesi e dei tedeschi aggiungono». [9]

Nel 2007 Air France ha corrisposto al suo personale navigante tra 89.000 e 170.000 euro, Lufthansa una media di 150.000 euro per pilota. Amoruso: «Ma se si prende come paradigma due big dei cieli come questi bisognerebbe anche avere il coraggio di dire che nello stesso anno, il 2007, Alitalia ha perso 495 milioni, mentre Air France ha guadagnato 748 milioni e Lufthansa ha addirittura raddoppiato l’utile netto, fino a toccare un miliardo e 655 milioni. Non solo. Mentre gli italiani volano in media 600 ore all’anno, Air One mette in bilancio 690 ore, da confrontare con le 680 di Parigi e le 700 di Lufthansa. Ma il problema non è la produttività, sostiene l’Anpac: il contratto Alitalia prevede già 850 ore di volo all’anno, ma in questo caso è la struttura del network a dettare legge». [9]

Un altro capitolo su cui Cai intende intervenire è quello delle ferie, dei riposi e dell’assenteismo. Amoruso: «Non vanno giù i 45 giorni di ferie dei piloti (34 per i colleghi di Air One) e i 49 giorni degli assistenti di volo. Rischiano grosso i passaggi di lusso (andare a prendere gli equipaggi prima di un volo e riaccompagnarli a casa al rientro costerebbe sette milioni l’anno), il giorno di riposo in più al mese delle hostess, l’assenteismo dei piloti (il 6% rispetto all’1,5-3% di altri Paesi), ma anche i preziosi distacchi sindacali (costano oggi ad Alitalia 13,5 milioni l’anno). Che dire poi del capocabina doppio e dei 500 assistenti di volo che possono volare fino alle otto di sera se dimostrano di essere affidatari di un minore? Si scopre anche che il ”giorno singolo libero dal servizio” previsto dal regolamento Enac corrisponde a ”due notti locali consecutive o a un periodo libero non inferiore a 33 ore che comprende almeno una notte locale”, per l’Alitalia. Le anomalia ci sono. E non sono poche». [9]

Ormai siamo al redde rationem. Vittorio Feltri: «I problemi sono due: primo, 18 mila persone in organico sono uno sproposito di timbro sovietico; almeno un terzo (per essere generosi) va messo alla porta o in cassa integrazione o riciclato, altrimenti Alitalia rinasce già morta; secondo, gli stipendi manicomiali della passata allegra e scellerata gestione sono da segare, facciamo del trenta per cento. O finisce la pacchia o non si comincia nemmeno a decollare». [10] Marco Simoni: «Come si può chiedere di accettare riduzioni di stipendio - che probabilmente sono necessarie date le disastrate condizioni finanziarie di Alitalia - mentre la nuova società sarà sostanzialmente libera da debiti, compresi gli ultimi 300milioni di euro ”prestati” dal governo che, con ogni probabilità, non saranno mai restituiti ai contribuenti?». [11]

Una cosa va messa in chiaro: quello che sta andando in scena nel caso Alitalia non è un tradizionale conflitto sindacale. Nella compagnia di bandiera vige da tempo immemorabile una forma particolare di governance che non è esagerato chiamare ”consociativismo aereo” in cui partiti, governi di turno, management e sindacati hanno dato vita a una gestione irresponsabile delle risorse. Dario Di Vico: «A pagare alla fine era Pantalone e in questo marasma si sono perse o diluite le differenze di comportamento tra sindacalismo autonomo e tradizione confederale». [12]

Il consociativismo non vuole la privatizzazione dell’Alitalia. Di Vico: «La richiesta di discutere congiuntamente esuberi e piano industriale si sta rivelando un machiavello per evitare non solo la normalizzazione dell’Alitalia, ma persino di discutere gli indispensabili sacrifici richiesti dalla situazione pre-fallimentare. L’obiettivo dei consociativi è quello di limitare preventivamente l’autonomia della nuova dirigenza ed evitare di mettere in discussione i propri privilegi». Davide Giacalone: «La cogestione è possibile solo mettendone il costo sulle spalle di altri, e oggi non si può fare, a causa dei vincoli europei e dell’impossibilità d’allargare il deficit». [13]