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 2008  settembre 13 Sabato calendario

Corriere della Sera, sabato 13 settembre Credo di conoscere gli argomenti con cui il generale Wojciech Jaruzelski si difenderà dall’accusa di «crimini comunisti» durante il processo iniziato ieri di fronte a un tribunale di Varsavia

Corriere della Sera, sabato 13 settembre Credo di conoscere gli argomenti con cui il generale Wojciech Jaruzelski si difenderà dall’accusa di «crimini comunisti» durante il processo iniziato ieri di fronte a un tribunale di Varsavia. Dirà anzitutto che la proclamazione dello «stato di guerra», nella notte fra il 12 e il 13 dicembre 1981, non ebbe, per il suo Paese «conseguenze irreversibili». E dirà in secondo luogo che la decisione del Consiglio di Stato, di cui era presidente, favorì la transizione della Polonia alla democrazia fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. La prima affermazione è difficilmente controvertibile. Le misure adottate nel periodo della legge marziale furono severe: coprifuoco, arresti, repressioni poliziesche, giudizi sommari, i nove minatori di Wujek, in Slesia, colpiti a morte dal fuoco di un reparto anti-sommossa. Ma non stroncarono i movimenti dell’opposizione e non impedirono a Solidarnosc, l’organizzazione creata da Lech Walesa, di conservare ed estendere la sua influenza sulla società polacca. La seconda affermazione, come ogni esercizio di storia controfattuale («che cosa sarebbe accaduto se») è più discutibile e non riuscirà forse a convincere la corte. Ma Jaruzelski non ha torto quando scrive nella sua autobiografia, apparsa presso Bompiani nel 1992: «Chi può affermare che dopo la reazione a catena che si sarebbe inevitabilmente prodotta in Polonia e in Europa se non avessimo agito come abbiamo agito, sarebbero state possibili la perestrojka e la nostra "Tavola rotonda"? Chi oserebbe negare l’ipotesi che una guerra civile o, peggio, un intervento armato sovietico sicuramente inevitabile, non avrebbero congelato ancora per molti anni un mondo diviso, antagonistico, murato nei suoi patti militari e cristallizzato nei suoi bastioni ideologici? Noi polacchi abbiamo conosciuto il purgatorio. Senza affermare che oggi abbiamo diritto al paradiso, so che abbiamo evitato l’inferno». Mosca era pronta a intervenire. Lo avrebbe fatto anzitutto per una sorta di automatismo storico. La Russia conosceva la febbre travolgente del nazionalismo polacco. Comunisti o no, i russi non avevano dimenticato né l’insurrezione del novembre 1830, né quella del 1863, né la furia con cui l’esercito del maresciallo Pilsudski, nel 1919, si era lanciato alla riconquista delle terre ucraine e bielorusse che erano state polacche prima delle grandi spartizioni. Dopo l’avvento del comunismo a Varsavia, alla fine della Seconda guerra mondia-le, la Polonia era stata il più riottoso e imprevedibile dei satelliti sovietici. Vi erano stati gli scioperi del giugno 1956 e i 53 morti di Poznan. Vi erano stati i moti operai di Danzica, Gdynia, Szczecin, provocati dall’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari alla fine del 1970, e i disordini del giugno 1976. Vi erano state l’elezione al papato dell’arcivescovo di Cracovia e le entusiastiche accoglienze che Giovanni Paolo II aveva ricevuto durante il pellegrinaggio patriottico del giugno 1979. Vi erano stati altri scioperi nell’estate del 1980. E vi era stata infine l’apparizione di un nuovo protagonista, Solidarnosc, capace di creare un blocco nazionale composto da operai, borghesi, intellettuali. Terrorizzata dal «contagio» polacco la dirigenza sovietica era pronta ad agire. Jaruzelski giocò d’anticipo e prese su di sé le responsabilità della repressione. Solidarnosc, naturalmente, non ha mai accettato le giustificazioni del generale. Ma dieci anni dopo, quando la Polonia era ormai democratica, una vittima dello «stato di guerra», Adam Michnik rese al generale l’onore delle armi. Disse che il 13 dicembre 1981, se lo avesse avuto di fronte, gli avrebbe sparato. Ma aggiunse: «Reputo però molto importante – ed è in qualche modo una vittoria sua e mia – che oggi possiamo parlare fra di noi di queste cose senza odio, senza ostilità, con rispetto reciproco, restando fedeli ciascuno alla propria biografia. Se esiste una possibilità per la Polonia, e io credo che esista, essa risiede nella capacità dei polacchi di parlarsi senza odio e senza ostilità». Questo sguardo equanime sulle tragedie del passato polacco non appartiene evidentemente allo stile e alla cultura dei gemelli Kaczynski. Nel periodo, dal 2005 al 2007, quando Lech fu presidente della Repubblica (una carica che ancora conserva) e Jaroslaw Primo ministro, fu lanciata un’operazione, definita con parola liturgica lustracja, di cui il processo Jaruzelski è la manifestazione più clamorosa. Grazie a questa «nuova inquisizione», come la definì Piero Ostellino nel Corriere del 4 aprile 2007, 700 mila polacchi sarebbero stati costretti a dichiarare pubblicamente i loro rapporti organici con il regime comunista. I gemelli avevano deciso di fare per via burocratica la guerra civile che il Paese era riuscito a evitare alla fine degli anni Ottanta. Fra coloro che rifiutarono di piegarsi all’obbligo dell’autocertificazione vi fu Bronislaw Geremek, storico, ex-ministro degli Esteri, parlamentare europeo, scomparso in un incidente automobilistico nel luglio di quest’anno. La morte gli ha impedito di assistere a un processo nel corso del quale i migliori dissidenti rifiuteranno probabilmente di testimoniare contro l’imputato. Sergio Romano