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 2008  settembre 13 Sabato calendario

Corriere della Sera, sabato 13 settembre Rio de Janeiro. Era una guerra neanche troppo fredda, e in bianco e nero

Corriere della Sera, sabato 13 settembre Rio de Janeiro. Era una guerra neanche troppo fredda, e in bianco e nero. Come i filmati degli aerei di Pinochet che bombardavano la Moneda, l’11 settembre di 25 anni fa. Non c’era il tempo reale, le decisioni correvano lungo i telefoni rossi, i protagonisti parlavano poco e soltanto gli storici, decenni dopo, erano in grado di raccontarci i dettagli. In compenso la contrapposizione tra Stati Uniti e America Latina – ingerenza vista da qui, contenimento del comunismo secondo Washington – era assai più semplice da capire. I fondamenti risalivano addirittura al secolo precedente (dottrina Monroe, 1823) e i criteri per applicarla erano lasciati ai successori di quel presidente, con le buone o con le cattive. La teoria del «cortile di casa», soprattutto dopo la crisi dei missili a Cuba, consentiva un’ampia discrezione: pressioni, golpe più o meno indotti, invasioni, in ordine crescente. Chi vi si opponeva da sud, invece, aveva scarse alternative. Spesso solo le armi. Da Theodore Roosevelt a Ronald Reagan, passando per quel Kennedy poi frettolosamente passato alla storia come uomo del dialogo, le esigenze di sicurezza nazionale sono state per Washington, lungo i decenni, l’unico criterio nel rapporto con l’America Latina. La rivoluzione cubana (1959) è stato ovviamente l’evento chiave. La paura del contagio ha avviato l’epoca delle dittature militari, aperta dal Brasile nel 1964 fino alle aberrazioni in Argentina, con i suoi 30.000 desaparecidos. Gli anni Ottanta hanno visto protagonista soprattutto l’America Centrale: è in quei Paesi piccoli e di scarso peso politico che si sono visti i peggiori massacri e il coinvolgimento più diretto della Casa Bianca, come nel polemico appoggio finanziario ai Contras antisandinisti. Il ritorno alla democrazia e gli anni dell’assestamento hanno coinciso con la caduta del comunismo in Europa e la fine della guerra fredda. Per parecchio tempo, complice il pensiero unico in economia, l’allineamento tra Nord e Sud del continente è stato pacifico e scontato, con punte di «relazioni carnali», come vennero definite quelle tra gli Stati Uniti e l’Argentina di Carlos Menem. Nuovo decennio, quello attuale, e nuova svolta. L’America Latina svolta a sinistra, a partire dalla vittoria di Hugo Chávez, fine 1998, e per una singolare coincidenza è un altro 11 settembre a fissare le regole della geopolitica continentale. Troppo occupati in altri scacchieri, gli Stati Uniti abbandonano ogni politica attiva e coordinata, con l’eccezione, forse, del Plan Colombia, antidroga e antiguerriglia. Gli esperti del continente hanno scarso credito presso la Casa Bianca. E spesso prendono solenni cantonate. Emblematica è la vicenda del golpe contro Hugo Chávez nell’aprile del 2002, i cui effetti si trascinano ai giorni nostri. In una operazione maldestra, condotta da settori dell’ opposizione e militari ribelli, il leader venezuelano viene allontanato dal potere per appena 48 ore. Il tempo sufficiente, però, affinché Washington approvi l’estromissione con la forza di un presidente eletto. Chávez, il cui governo era in netta difficoltà, si risolleva grazie all’ episodio. In quelle ore nasce «el diablo Bush», il filo conduttore di una politica estera basata sul muro contro muro, l’autorivendicazione di un nuovo asse del male e su un’arma chiamata petrolio. La resurrezione di Chávez ha un effetto decisivo sul successo di esperimenti analoghi (Bolivia, Ecuador, Nicaragua) e sulla tenuta economica di Cuba, il nemico storico. L’escalation delle ultime ore, per fortuna limitata alle parole e alla diplomazia, cade dunque in un contesto assai diverso dagli anni di Henry Kissinger e poi di Reagan. Chávez e Morales accusano Washington di volere la loro caduta e arrivano a immaginare interventi militari vecchio stile. I loro avversari interni sostengono che è un pretesto per distrarre dalle difficoltà. La Bolivia è spaccata in due e in Venezuela la popolarità di Chávez è in netto declino dopo la sconfitta al referendum che intendeva instaurare il socialismo. E c’è un’altra differenza rispetto al passato. Si chiama Brasile, la potenza continentale che è oggi considerato un modello di democrazia e diplomazia cauta. Potrebbe toccare a Lula, anche se controvoglia, tentare di sbrogliare la matassa. Rocco Cotroneo