Diego Andreatta, Avvenire 12/9/2008, pagina 29, 12 settembre 2008
Avvenire, venerdì 12 settembre Li abbiamo sempre ignorati come inutili pietre di scarto, eppure ci hanno spesso evitato di uscire di carreggiata
Avvenire, venerdì 12 settembre Li abbiamo sempre ignorati come inutili pietre di scarto, eppure ci hanno spesso evitato di uscire di carreggiata. Gli ultimi paracarri hanno trovato finalmente un buon samaritano, qualcuno che li ha visti abbandonati sul ciglio della storia, se ne è -preso cura, fino a conferire loro un riconoscimento sul campo, meritata promozione di grado per queste umili sentinelle della strada. Il primo museo del paracarro sorge da poche settimane in Trentino a Canezza, a mezzora di pedalata dal paese di Moser e Simoni. Ad inventarselo- un pensionato dalla vocazione, Dario Pegoretti, campione fra i ciclisti amatori per 35 stagioni e per altrettanti anni al lavoro come tecnico del Servizio Viabilità della Provincia autonoma. Uno che di strada ne ha fatta davvero tanta, con i pedali e con l’altimetro. Il buon Dario dice di essere stato folgorato due anni fa sull’epica salita al Passo dello Stelvio: riverso a terra fra le sterpaglie, quasi messo a tacere per sempre, c’era un paracarro che avrebbe potuto raccontargli la leggendaria fuga sui tornanti di «un uomo solo al comando». Se lo portò a casa, lo dedicò al grande Fausto Coppi, ma la par condicio dei paracarri gli fece subito pensare a Gino Bartali e lungo le strade che hanno scritto la storia del Giro - dopo aver chiesto i necessari permessi statali - si mise a collezionare gli eloquenti monumenti delle imprese eroiche. Dal serpentone che s’inerpica sul monte Bondone è saltato fuori il plinto a ricordo del lussumberghese Charly Gaul che s’aggiudicò nella bufera la tappa del 1956. Dalle discese della Milano-Sanremo arriva il ricordo di Michele Cancelli che vinse la classicissima nel 1970, Marco Pantani- è citato per il suo passaggio ai piedi della Marmolada, mentre dal primierotto Passo della Gobbera, al confine fra Veneto e Trentino,- è stato prelevato il testimone del passaggio di Fiorenzo Magni, rintracciabile peraltro ancora oggi nella scritta su un’abitazione: «W Magni». Un paracarro tira l’altro. Altri ne arriveranno presto sul sito web, ma sono già ottanta i pezzi nel museo di Canezza allestito d’intesa con gli stessi campioni del passato, a parte Vittorio Adorni che è -finito col suo paracarro proprio fra quello dei rivali-amici Felice Gimondi ed Eddy Merckx:- «Anche lì mi fate ancora soffrire, in mezzo a quei due…» ha scherzato per il taglio del nastro affidato al capostipite di casa Moser, Aldo. Questo museo- è un atto d’amore verso il ciclismo, ha commentato Renato Marchetti, uno dei tanti ciclisti che riescono a vedere nell’opaco e granitico segnavia lo specchio della loro carriera. Come il trentino Marcello Osler, gregario di Bertoglio e Moser, oggi negoziante di biciclette, guardacaso nativo anche lui di Canezza, che ha recuperato a Sorrento lo squadrato ricordo della sua formidabile vittoria in una lontana tappa del 24 maggio 1975, fuga di 188 chilometri e distacco di oltre otto minuti sugli inseguitori. L’inossidabile Zandegù ha testimoniato che nel Veneto della sua infanzia contro i paracarri si batteva forte lo stoccafisso, mentre Francesco Moser ha svelato l’espressione gergale:- «Sei fermo come un paracarro ci dicevamo quando le gambe non giravano più». Una mano ad allestire il Museo, oltre che dalla Provincia,- è venuta anche dal sindaco di Pergine Valsugna, Renzo Anderle, un tecnico che ha apprezzato nella didascalia di ogni segnavia la composizione dei materiali (consulenza del noto geologo Giulio Antonio Venzo): granito per lo più, ma anche marmo, cemento e calcestruzzo. Per non dire di coni, parallelepipedi o cilindri, le mille fogge diverse, dal masso arrotondato a infiniti colpi di mazza fino agli attuali fuscelli usciti in serie di plastica. Una normativa europea ha messo fuori legge i paracarri di pietra da oltre vent’anni, per cui Pegoretti- è un recuperante della memoria: «Ho pensato di dedicare il museo a tutti gli operatori della sicurezza sulla strada anche oggi - tiene a sottolineare - perché sono anonimi stradini con il loro lavoro quotidiano a garantire la nostra incolumità». Segnalato dai fiori sempre freschi, qualche paracarro- è diventato anche lapide. Al museo si ricorda la caduta nel 1995 al Tour de France di Fabio Casertelli così come l’incidente che costò la vita a Emilio Ravasio a Sciacca nel Giro d’Italia del 1986. Una scultura lignea del "Cristo dei Ciclisti" vigila sul museo dei paracarri, uno dei quali - tutto giallo e nero secondo il modello delle lunghe strade panamericane - è dedicato perfino ad un vescovo missionario, padre Adriano Tomasi, anche lui trentino appassionato di ciclismo. Diego Andreatta