Francesco Borgonovo, Libero 12/9/2008, pagina 28, 12 settembre 2008
Alla Biennale non si riesce a trovar casa. Libero, venerdì 12 settembre Inaugura domani a Venezia ”Out There: Architecture Beyond Building”, l’undicesima Biennale di architettura (aperta al pubblico da domenica prossima fino al 23 novembre) curata dal saggista e professore universitario statunitense Aaron Betsky
Alla Biennale non si riesce a trovar casa. Libero, venerdì 12 settembre Inaugura domani a Venezia ”Out There: Architecture Beyond Building”, l’undicesima Biennale di architettura (aperta al pubblico da domenica prossima fino al 23 novembre) curata dal saggista e professore universitario statunitense Aaron Betsky. L’ignaro turista della cultura che si aspettasse di trovare nei padiglioni ambiziosi progetti per fastose dimore e favolose costruzioni rimarrebbe però deluso. Se si esclude il padiglione italiano, praticamente tutta la mostra sarà costituita da installazioni, film e ”happening” di vario genere. Del resto, l’obiettivo manifesto del curatore - autore di testi come ”Queer space”(sulla ”architettura transgender”) e ”Building Sex”, cioè: ”Costruire il sesso: uomini, donne, architettura e la costruzione della sessualità”) - è quello di «andare oltre l’architettura». Parlando coi giornalisti nei giorni scorsi, Betsky ha dichiarato che «l’architettura deve porre, ragionare sui problemi, non risolverli» e, soprattutto, che «bisogna orientarsi verso un’architettura liberata dagli edifici». Secondo il curatore della Biennale, infatti, «l’architettura non è il costruire». Piuttosto, «invece di tombe dell’architettura, vale a dire gli edifici, bisogna presentare visioni ed esperimenti che ci aiutino a comprendere e a dare un senso al nostro mondo moderno». Di fronte a queste uscite, vien da chiedersi di che cosa debba occuparsi l’architettura, se non di edifici e case. Franco La Cecla, antropologo e architetto (già docente a Venezia e Parigi), autore del pamphlet ”Contro l’architettura” (Bollati Boringhieri) ha provato a darci qualche risposta. «Ho visto le immagini della mostra e ho letto le dichiarazioni di Betsky sui giornali», dice, «Da come parla, mi sembra che punti su un’interpretazione dell’architettura come ”guizzo creativo”, sul far diventare gli architetti veri e propri artisti. Il discorso che porta avanti sull’andare ”oltre l’architettura” riguarda proprio questo aspetto, cioè il fatto che gli architetti siano artisti. A questo punto, però, non si capisce la separazione della Biennale d’architettura da quella d’arte». Betsky dice che l’architettura non deve occuparsi di edifici. Di che cosa, allora? «Le cosiddette archistar non si occupano di edifici e si vede. Non prendono sul serio i problemi delle città di oggi, che sono sempre più affollate e hanno mille difficoltà. Si occupano piuttosto di trend, di cose invisibili, fanno i profumi». Perché? «Dietro tutto questo c’è un’ideologia della trasformazione di ogni cosa in realtà virtuale, per cui la città si smaterializza e diventa soltanto un luogo in cui si lanciano tendenze. In questo senso, l’architettura viene ad assomigliare alla moda. Non a caso molte archistar hanno lavorato per le grandi firme della moda». Con le archistar, Betsky ha un rapporto solido: ha scritto le monografie di Zaha Hadid, di Daniel Libeskind, dei Sanaa... «Betsky è un architetto dei salotti newyorkesi. Il suo comandamento è questo: che gli architetti sono dei geniali artistoidi che lanciano messaggi in bottiglia, al massimo realizzano dei monumenti. E dicono che le case sono un effetto secondario. Questi architetti hanno cavalcato moltissimo la moda e i media. Hanno capito in che senso andava la tendenza generale e ne sono diventati il simbolo. Per loro è importante soprattutto la trovata, lavorano in un senso anti-città. Perché per essere ricordati i loro edifici devono essere contro il contesto in cui sono inseriti». Una delle maggiori critiche rivolte nei mesi scorsi alle cosiddette archistar era che le loro opere fossero tutte uguali ovunque, indipendentemente dalla città in cui venivano collocate. «Hanno tutte lo stesso segno. Libeskind ha disegnato un museo dell’olocausto e poi ne ha costruito un altro uguale negli Stati Uniti, il quale però è un museo di arte moderna. Si è perso anche il valore del simbolo. Sa qual è il vero problema?» Dica. «Che gli architetti stanno rubando il lavoro agli artisti, stanno occupando il loro spazio. E viceversa, gli artisti si occupano sempre più della città, lavorano sugli spazi, fanno installazioni...» Di cosa dovrebbe occuparsi l’architettura secondo lei? «Dovrebbe occuparsi delle città. Delle grandi città, della gestione dei problemi che le riguardano. Cosa che questa Biennale non fa. A Parigi c’è una mostra bellissima sulle città cinesi, una delle migliori dell’anno. La quale, guarda caso, è curata da un giornalista di Le Monde. Io credo che oggi ci sia molta ciccia di cui occuparsi, ma gli architetti si occupano d’altro, fanno i modaioli, fanno cose frou frou». Nel suo libro ”Contro l’architettura”, lei cita l’opinione di Massimiliano Fuksas, secondo cui spetta ai politici e non agli architetti affrontare le emergenze delle città. «Sì, però la cosa grave è che alcuni compiti sono specifici degli architetti. Quello per esempio di imporre una tendenza agli amministratori e ai politici, che riguardi il rispetto dell’ambiente o semplicemente la bellezza delle città. Gli architetti potrebbero avere una funzione educativa molto forte in questo senso. Nei giorni scorsi mi trovavo a La Spezia, al congresso nazionale degli ingegneri. I quali sono gente che si occupa della qualità delle città, sono coscienti di avere la possibilità di influenzare anche gli amministratori. Loro vorrebbero costituire un tavolo presso il consiglio dei ministri per occuparsi dei problemi delle città. Credo che ci riusciranno». Gli architetti invece... «Gli architetti invece sono una corporazione super antagonista, non potrebbero fare una cosa del genere». In sostanza, qual è il suo giudizio su questa biennale, per quanto ha potuto vedere finora? «Mi sembra una Biennale che nasce già vecchia. Perché nasce nel segno dell’artista archistar. E non c’è nulla di nuovo in questo. Mi sembra molto riduttiva: davanti ai grandi compiti che gli architetti potrebbero svolgere, mi pare molto salottiera e limitata». Che cosa le piacerebbe vedere a una prossima Biennale? «Un po’ di preoccupazione per il futuro delle città. Mi piacerebbe che l’affidassero a un indiano, magari Mehta Suketu, che ha scritto ”Maximum city” su Bombay. Sarebbe un atto di coraggio e intelligenza, a mio parere». Crede che lo faranno? «Credo proprio di no». Francesco Borgonovo