Gianluigi Colin, Corriere della Sera 11/9/2008, pagina 41, 11 settembre 2008
Corriere della Sera, giovedì 11 settembre «L’arte è ’nu fiume ’e merd’ muoll’ addo’ ogni tanto iesce ’nu poc’ e merd’ tuost’»: Mimmo Paladino non trova altra sintesi se non le colorite parole del poeta napoletano Luca Castellano, per spiegare quello che sta accadendo intorno alla mostra Italics
Corriere della Sera, giovedì 11 settembre «L’arte è ’nu fiume ’e merd’ muoll’ addo’ ogni tanto iesce ’nu poc’ e merd’ tuost’»: Mimmo Paladino non trova altra sintesi se non le colorite parole del poeta napoletano Luca Castellano, per spiegare quello che sta accadendo intorno alla mostra Italics. Arte italiana tra tradizione e rivoluzione, 1968-2008 che si inaugurerà a Palazzo Grassi il 27 settembre. Paladino scherza, ma non tanto. La battuta dell’artista rivela con accenti davvero feroci il clima che circonda la rassegna veneziana, destinata a superare l’evento artistico e diventare una polemica culturale, se non un caso politico e giudiziario. In effetti, già dall’immagine scelta per il manifesto si capisce che c’è una voglia matta di polemica. Il segno di Francesco Clemente ritrae una figura esile con l’eskimo e il pugno chiuso, un frammento di identità. Il disegno (del ’71) stupisce nel contrasto tra la fermezza simbolica del gesto e l’eleganza formale dell’opera. Ma non è una banale decisione estetica o grafica. Bensì un messaggio trasversale. Un attacco a buona parte del mondo della critica dell’arte nostrana, un vero manifesto ideologico: o meglio, il più potente manifesto dell’anti-ideologia nell’arte e nella sua critica degli ultimi anni. Un’immagine che racconta l’invisibile e irrisolta linea di passaggio tra tradizione e rivoluzione, (il disegno, il pugno chiuso) e che diventa metafora del dibattito su quella che si sta concretizzando come la prima mostra revisionista sull’arte contemporanea italiana. Forse, proprio per questo, Italics rischia di essere ricordata anche in futuro. E se non per questo, certamente perché il suo curatore, Francesco Bonami (fiorentino, classe 1955, curatore del museo d’arte contemporanea di Chicago, un lungo curriculum di libri e rassegne alle spalle tra cui la Biennale di Venezia del 2003) prima ancora dell’apertura è già riuscito a scatenare un putiferio col risultato di ricevere insulti che poco hanno a che fare con l’eleganza dei musei. Un assaggio? «Servo del potere, sparecchia come un cameriere» (Achille Bonito Oliva). E poi, ancora più sbrigativo: « un parvenu, un pittore mancato » (Mimmo Paladino). Ma oltre queste delicatezze anche l’ira di artisti: ed ecco chi si rifiuta di esporre le sue opere o chi si inalbera perché non ha un’opera da esporre. Insomma, ecco curatori, critici e storici dell’arte, ma anche avvocati e giuristi, in un valzer di botta e risposta con lettere, dichiarazioni formali, battute spietate. E tutto questo, per una mostra ancora invisibile. Un vero caso. Per Bonami, comunque vada, è già un successo. Ma che cosa sta accadendo davvero? Quali sono le ragioni di tante polemiche? Quali interessi in campo? Partiamo da qualche mese fa, quando la vicenda scoppia grazie a Francesca Pini sulle pagine del Magazine del Corriere della Sera. La giornalista scopre un curioso e nascosto contenzioso legale: Kounellis non vuole che una sua opera, Scarpette d’oro, di proprietà di un collezionista privato, sia esposta alla mostra Italics. Si appella al diritto d’autore: «L’opera è mia e la difendo io», sostiene. Scoppia il caso in punta di diritto. «Le scelte di un curatore non possono essere dittatoriali, l’artista deve essere consultato prima d’inserirlo in collettive che lo coinvolgono anche a livello ideologico» dice. E poi rincara la dose: «Bonami porta un’intera cultura pittorica allo sbaraglio». Ma alla fine, Scarpette d’oro farà bella vista in mostra. Palazzo Grassi va avanti dritto per la sua strada, fregandosene bellamente del parere di Kounellis: prossima puntata in tribunale? L’artista greco ma italiano di formazione è noto anche per il suo rigore e certe spigolosità di carattere e questo metterà benzina sul fuoco in un rapporto che ha lontani rancori. Sicuramente non avrà dimenticato quello che scrisse Bonami di lui e dei suoi colleghi dell’arte povera nel catalogo della mostra Zero to Infinity alla Tate di Londra liquidandoli con una battuta: «Sono dei vitelloni dell’arte». Ma al di là delle sgarberie personali stavolta l’aspetto ideologico appare come il punto chiave. Kounellis spara ad alzo zero: «Non mi presto al gioco della mostra di Bonami sull’arte italiana che ha un taglio ideologico revisionista. L’opera d’arte non può essere decorativa». Il che, tradotto, significa che Kounellis non vuole essere accomunato con altri artisti che ritiene non rappresentativi in una mostra che ha l’ambizione di fare il punto sull’arte italiana degli ultimi quarant’anni. Dello stesso parere, se pur in forma diversa, è Mimmo Paladino (escluso dalla rassegna) che non le manda a dire. «Bonami si è preso l’impegno di dare il colpo mortale alla reputazione della nostra arte. L’intento di Bonami è revisionista, perché tende a riaprire polemiche chiuse da tempo. Vuole far credere che personaggi come Annigoni, Guttuso e molti altri che tira in ballo, come Clerici, Ferroni, Baj, non hanno il posto che (secondo lui) meriterebbero nella storia dell’arte, perché figurativi o perché vittime di chissà quali congiure. Purtroppo è chiaro che per il nostro curatore è un tentativo di "piazzarsi" gigionando sulla pelle dell’arte italiana e facendone un fenomeno da circo». «Che cattivo costume, quello di criticare le mostre senza neanche averle viste» afferma lo storico e critico d’arte Vincenzo Trione. «Dietro gli attacchi a Italics si nascondono molti preconcetti. Invidie generazionali, meschinità personali, uno strisciante provincialismo. Ma, soprattutto, distanze culturali. Bonami adotta un approccio decisamente anti-ideologico. Si fa sostenitore di una filosofia che non procede per divisioni nette: da una parte, i buoni (gli animatori delle avanguardie); dall’altra parte, i cattivi (i sostenitori del ritorno alla tradizione). Non pretende di dividere i gruppi artistici in guelfi e ghibellini. Rimescola le carte, con disinvoltura postmodernista. Con Italics si propone di superare ogni schema rigido. Si prende la libertà di accostare la voce dei protagonisti delle neoavanguardie a quella di autori legati alla tradizione. Gli intenti revisionisti sono evidenti. Basta soffermarsi sul titolo della mostra: che vuole sottolineare l’esistenza di un linguaggio "italico". quasi un elogio del genus italicum in un’epoca di globalizzazione imperante. In questa vicenda, i veri reazionari sono i reduci dell’Arte Povera e della Transavanguardia». «Bonami è il Funari dell’arte» scherza Piero Mascitti, direttore della Fondazione Rotella (in mostra ci sono più opere del maestro di Catanzaro). «Non c’è dubbio che ha la grande capacità di attirare l’attenzione dei media usando la provocazione come strumento corrosivo per comunicare idee». Ma Bonami cerca di chiarire e smorzare i toni: «Mostra revisionista? Mi chiedo innanzitutto perché questa parola abbia una valenza negativa. Comunque, con Italics non voglio proprio dimostrare nulla, non è una mostra a tesi, piuttosto pongo delle domande, invito a una serie di riflessioni sull’arte degli ultimi quarant’anni. Desidero riflettere sul perché artisti come Annigoni e Guttuso abbiano fatto opere importanti ma poi si siano anche persi. Voglio chiedere: come mai nel ’35 Annigoni lavorava con i più grandi artisti europei e poi è diventato una parodia di se stesso? Come mai Guttuso prima della morte era considerato uno dei più grandi artisti italiani, ma nessuno lo conosceva all’estero?». Bonami parla come un fiume in piena: «Le critiche di Kounellis non mi stupiscono: sono figlie di un certo atteggiamento sovietico, censorio, dittatoriale che nasce da un modo di pensare, da un modello culturale. Eppure, Kounellis resta una figura fondamentale dell’arte italiana». «Vede, quello che sta accadendo nell’arte è davvero speculare della situazione politica: Germano Celant e Achille Bonito Oliva sono come la Democrazia Cristiana e il Psi durante la prima repubblica: hanno controllato il sistema dell’arte. E oggi c’è il tentativo di bloccare qualsiasi cosa che non sia sotto la loro egida. Si vuole bloccare qualsiasi cosa che aiuti ad andare avanti ». Bonami sottolinea che Italics è la naturale continuazione della mostra The Italian Metamorphosis curata da Germano Celant al Guggenheim di New York del 1994. Ed è lo stesso Celant, per ora, a chiudere simbolicamente, con fermezza e una dose di saggezza, i botta e risposta: «Parlare senza aver visto è solo arbitrario, non rispettoso. Fare una mostra è una forma di scrittura. Sono gli spazi, le dimensioni, i confronti, non solo i nomi a costituire una rassegna. E allora, prima di tutto, vediamola questa mostra. Magari per stroncarla, ma vediamola».