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 2008  settembre 08 Lunedì calendario

Biografia di Eustachio Chita detto Chitarrid

La Stampa, lunedì 8 settembre Chiunque avesse notizie dello scheletro del signor Eustachio Chita, detto Chitaridd, è cortesemente pregato di contattare i suoi discendenti a Matera. Al momento non è stata prevista alcuna ricompensa. Ma si potrebbe essere ricordati per aver risolto un curioso enigma che da ben 112 anni, quattro mesi e due settimane collega la città lucana a un piccolo museo di Torino. L’oggetto dell’enigma è proprio lui, Chitaridd (o quel che ne rimane): uno dei più celebri briganti della Basilicata di fine Ottocento, ucciso nell’aprile 1896 nella grotta in cui era latitante, e successivamente portato nella città sabauda per essere analizzato e catalogato da Cesare Lombroso. Da allora di lui non si sa più nulla, se non che i suoi resti dovrebbero essere tuttora conservati nel museo che porta il nome del pioniere della criminologia. Dovrebbero. Perché - in realtà - delle ossa del brigante non sembra esserci più traccia nonostante oggi un gruppo di pronipoti e attivisti da Matera insista per riaverle, e per restituire alla Basilicata, uno dei suoi briganti più rappresentativi. Dalle parti del Sasso Caveoso, si trovano bancarelle che espongono magliette con la foto del brigante e attivisti pronti a raccontare con passione le vicissitudini. Eustachio Chita nacque a Matera nel 1862 da una famiglia di pastori, ereditando il soprannome Chitaridd («piccolo Chita» in dialetto) a causa della bassa statura. Fin da piccolo seguì le orme del padre Michele, un uomo frustrato dalla vita e di indole violenta, capace in più di un’occasione di avventarsi sul figlio e di massacrarlo di botte con bastoni e pietre durante le lunghe camminate per seguire i pascoli. Chitaridd fuggì molto presto di casa, rifugiandosi nelle campagne lucane, dove cominciò la sua vita di brigante. Gli furono attribuiti quattro omicidi, due tentativi di omicidio e diversi furti ed estorsioni ai danni degli abitanti dell’agro materano. Viene descritto come un tizio inaffidabile, poco socievole e religiosissimo, capace di passare da uno stato di allegria euforica a periodi di lunghi silenzi, ma che non aveva vizi etilici e non andava a donne. L’ultimo rifugio Braccato dalle autorità, il brigante si rifugiò in una delle grotte a ridosso della gravina di Murgecchia, dove rimase nascosto fino all’aprile del 1896, quando un giovane pastore scoprì per caso il suo rifugio e riferì la cosa a due cugini di Chitaridd, Paolo Francesco Falcone e Paolo Francesco Nicoletti, che gli tesero un’imboscata, uccidendolo con un colpo di scure in piena fronte. Il rapporto dei carabinieri sostiene che nella grotta del brigante fu ritrovato un vero e proprio arsenale: «Un fucile a due canne a retrocarica, un fucile a una canna vecchio sistema, una pistola a due canne regolarmente manifatturata, una pistola a una canna vecchio sistema, un’altra pistola a due canne, un coltello lungo da macellaio, un coltello da pastore, una lima lunga senza manico, un coltello serra-manico, polvere pirica, palle di piombo, cartucce». E infine un pezzo di carta con una frase sgrammaticata scarabocchiata a matita, forse un «pizzino» con un messaggio in codice a un amico scritto durante la latitanza. Un ghigno grottesco Il viso barbuto di Chitaridd, aperto a metà dalla fenditura dell’ascia, conserva un ghigno grottesco. Qualcuno gli fa una foto (l’unica che lo ritrae). E a questo punto la storia si tinge di giallo: che fine fa il cadavere del brigante? L’unica traccia che rimane è uno scambio epistolare tra un certo dottor Raffaele Sarra di Matera e il personale dell’istituto di medicina legale di Torino diretto da Cesare Lombroso. Dalle lettere dell’aprile 1900 sembra che il corpo di Chitaridd abbia attraversato l’Italia per finire tra le mani dello studioso della fisiognomica, che misurava i crani dei criminali per dimostrare l’ereditarietà dei loro tratti anti-sociali. Tuttavia gli archivisti del museo Lombroso sostengono di non avere trovato altro che qualche documento. Il professor Paolo Tappero, curatore del museo Lombroso, snocciola un breve elenco di reperti biologici: «Abbiamo alcuni encefali di alienati, anche se non dell’epoca, e poi scheletri e crani identificati e non. Ci sono un mucchio di crani appartenenti a briganti anonimi sardi. Ma di questo Chitaridd non risulta esserci nulla». Il caso politico Il grosso dei reperti, in effetti, è costituito da oggetti appartenuti a criminali, più che dai criminali stessi. Parte della documentazione che identificava crani e scheletri potrebbe essere andata perduta. Lo stesso Eustachio Chita a Torino risulta chiamarsi Chito, per un probabile errore di trascrizione dell’epoca. Oltretutto il museo è stato smantellato, in attesa del trasferimento al reparto di anatomia, dove dovrebbe riaprire l’anno prossimo. Un particolare, tuttavia, potrebbe aiutare all’identificazione del teschio di Chitaridd, che presenta una profonda fenditura da colpo d’ascia sulla fronte. «Dovrebbero cercare meglio», sostiene Michele Chita, 34 anni, discendente di Chitaridd. Da ragazzino lo sfottevano, sostenendo che fosse il pronipote di un brigante. Ma Michele ha trasformato la vergogna in orgoglio. Oggi, per mestiere, guida i turisti tra i sassi di Matera, e nel tempo libero, guida la campagna per la restituzione delle spoglie del suo antenato insieme ai ragazzi del Comitato spontaneo autogestito di Vico Solitario. La loro petizione (cui è seguita persino un’interrogazione parlamentare) inviata al sindaco di Matera Nicola Buccico un anno fa non ha ottenuto risposte. «Il brigantaggio fa parte della nostra identità e non va visto solo in ottica negativa», continua Michele. «Chitaridd ha commesso degli sbagli, ma è anche un uomo che ha sofferto molto. Lo rivogliamo portare a casa». L’anno scorso, dopo quasi un secolo, la Basilicata ha riavuto i resti di Giovanni Passannante, l’anarchico repubblicano incarcerato per l’attentato a re Umberto I e in seguito oggetto di studi del Lombroso. Ora aspettano le spoglie del brigante Chita, morto povero e incompreso. Pablo Trincia