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 2008  settembre 10 Mercoledì calendario

Corriere della Sera, mercoledì 10 settembre La nazionalizzazione da parte del governo americano di due immensi istituti di credito, conosciuti come Fannie Mae e Freddie Mac, rappresenta indubbiamente una buona notizia, un raggio di sole che viene a squarciare i nuvoloni neri dell’economia

Corriere della Sera, mercoledì 10 settembre La nazionalizzazione da parte del governo americano di due immensi istituti di credito, conosciuti come Fannie Mae e Freddie Mac, rappresenta indubbiamente una buona notizia, un raggio di sole che viene a squarciare i nuvoloni neri dell’economia. Il motivo per cui questo intervento è da considerare una buona notizia, sia per l’economia americana che per quella europea, ha però poco a che vedere con gli aspetti tecnici dell’azione del governo, o con il mercato ipotecario. E’ una buona notizia perché significa che l’America non copierà il Giappone. Il Giappone è l’unica altra grande economia industriale che, dal 1945, ha dovuto affrontare lo scoppio della bolla finanziaria, un lungo periodo di deflazione e il crollo dell’intero sistema bancario. Come conseguenza della crisi finanziaria, il paese è rimasto stagnante per buona parte di un decennio. Da allora l’economia si è ripresa, ma debolmente. Poiché l’America rappresenta oltre il 25 per cento del Pil mondiale, e poiché le banche e i fondi pensione europei sono profondamente interconnessi con i mercati finanziari americani, è vitale per tutti noi che l’America non ripeta l’esperimento giapponese. O, piuttosto, che non ripeta gli errori del Giappone. Il primo sbaglio giapponese è stata l’eccessiva ritrosia nel tagliare i tassi d’interesse sin dallo scoppio della crisi. La Federal Reserve americana ha già dimostrato di aver appreso quella lezione, tagliando i tassi d’interesse ufficiali durante l’autunno 2007 e nei primi mesi del 2008. Il secondo sbaglio, tuttavia, è stato che in Giappone il ministero delle Finanze, in accordo con le banche, ha tentato di nascondere la reale portata delle perdite e dei debiti accumulati, nella convinzione che quell’ammissione avrebbe generato il panico, mentre l’economia, grazie alla crescita, sarebbe stata in grado di sopperire alle perdite. E invece, quella decisione non ha fatto altro che prolungare e aggravare l’agonia, diffondendo sfiducia e voci incontrollate da un capo all’altro del sistema finanziario. Fu solo negli anni 1997-99, sette anni interi dall’inizio della crisi finanziaria giapponese, che il governo riconobbe le dimensioni del problema e la necessità di reperire una soluzione, nazionalizzando tre grandi banche e utilizzando vaste somme di denaro pubblico per ricapitalizzare le altre. La buona notizia della nazionalizzazione americana di Fannie Mae e Freddie Mac è che l’ammissione delle dimensioni del problema finanziario e delle debolezze reali del mercato immobiliare è giunta solo tredici mesi dall’inizio della crisi. Certo, è una buona notizia che riflette però una tendenza pericolosa. Questi due istituti, stabiliti dal governo nel 1938 e nel 1970, rispettivamente, ma poi trasferiti agli azionisti privati, forniscono garanzie o finanziamenti diretti per circa la metà dei mutui immobiliari americani, per un valore che si aggira sui 5 trilioni di dollari. Possono solo finanziare o garantire mutui ipotecari di buona qualità e pertanto non sono stati coinvolti nel tracollo dei subprime, di scarsa affidabilità, che hanno innescato la crisi. Ma il continuo calo dei prezzi immobiliari ha fatto innalzare il tasso di insolvenza persino sui mutui fino ad allora considerati sicuri, generando grosse perdite per Fannie Mae e Freddie Mac e dissuadendo gli investitori dal sostenerli con nuovi fondi. Senza il salvataggio del governo, l’afflusso di fondi per il mercato ipotecario era destinato a ridursi, spingendo i prezzi al ribasso e aggravando le perdite per tutti. La nazionalizzazione dovrebbe metter freno alla spirale discendente, tramite l’iniezione di parecchi soldi pubblici da travasare negli istituti: forse 100 miliardi di dollari, che potrebbero addirittura arrivare a 500. Il salvataggio andrà così a pesare sul deficit pubblico americano, anche se a 2,4 percento del Pil il deficit attualmente non può considerarsi eccessivo. Ma nel corso del prossimo anno e oltre è destinato a crescere, perché il nuovo presidente vorrà certamente varare una qualche forma di stimolo fiscale, e forse ci saranno altre banche da salvare. La buona notizia non significa pertanto che le brutte notizie sono finite. L’America rischia ancora di sprofondare in una recessione, ma il governo ha almeno riconosciuto l’effettivo stato del suo sistema finanziario e si è dimostrato pronto ad agire, all’occorrenza, con grande risolutezza per scongiurare che un momento di difficoltà si trasformi in un disastro. E questo è senz’altro rassicurante. Bill Emmott