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 2008  settembre 07 Domenica calendario

WASHINGTON

Ogni 19 gennaio, data del compleanno di Edgar Allan Poe, qualcuno si reca non visto alla sua tomba, a Baltimora, per deporvi tre rose rosse e mezza bottiglia di cognac. Nessuno sa chi sia. Lo chiamano il Poe Toaster. Succede dal 1850, anno successivo alla morte del poeta e scrittore americano, considerato il capostipite del racconto poliziesco e del giallo psicologico.
Ma la misteriosa e intrigante tradizione rischia di interrompersi, o di proseguire altrove, ora che uno studioso di Poe ha lanciato una battaglia per trasportarne i resti a Filadelfia, dove scrisse le opere più importanti, ispirato dal crimine e dalla violenza di cui fu teatro la città della Pennsylvania alla metà dell’Ottocento.
Cominciata come la colta boutade di un eccentrico, la vicenda è cresciuta fino a diventare una sfida di campanile polemica e densa di rancore, che da quasi un anno prosegue su giornali, televisioni, blog e che avrà il suo culmine il 13 gennaio prossimo, vigilia del duecentesimo anniversario della nascita di Poe: quel giorno, nella Philadelphia Free Library, Edward Pettit, l’esperto all’origine della querelle, affronterà in una disputa pubblica un rappresentante di Baltimora, ancora da designare.
Non è detto che il contraddittorio serva a dirimere l’argomento.
«L’elenco dei racconti che Poe ha scritto a Filadelfia – ha spiegato Pettit al New York Times – è lunghissimo: La rovina della Casa degli Usher, I delitti della Rue Morgue, La maschera della Morte Rossa, Il gatto nero, Il cuore rivelatore, Lo scarabeo d’oro, soltanto per dirne alcuni. Ecco perché lo meritiamo». Annunciando un anno fa la sua crociata sul Philadelphia City Paper,
lo studioso aveva usato toni molto bellicosi: «Concittadini, per celebrare degnamente i 200 anni della nascita di Poe, saltiamo in auto, prendiamo la InterState-95 e andiamoci a riprendere quel corpo in un certo cimitero di Baltimora».
«Tenetevi la vostra campana rotta e la vostra
cheese-steak, i resti di Poe non vanno da nessuna parte», era stata la risposta di Jeff Jerome, curatore della Poe House di Baltimora. I riferimenti erano alla Campana della libertà, che l’8 luglio 1776 chiamò i cittadini a raccolta per ascoltare la prima lettura pubblica della Dichiarazione d’indipendenza, oggi custodita nella Constitution Hall di Filadelfia, e alla specialità gastronomica locale. «Se proprio volete dei resti, prendetevi John Wilkes Booth», aveva aggiunto per sfregio Jerome, riferendosi all’assassino del presidente Abraham Lincoln, anche lui seppellito a Baltimora.
Oltre l’opportunità filologica, Pettit ne fa anche una questione d’amore e di devozione: «Quando Poe morì, a Baltimora c’erano pochissime persone al suo funerale. Per oltre vent’anni, sulla sua tomba non ci fu neanche una lapide, soltanto terra. Così una città ama e onora un figlio celebre?». Pettit osserva anche che l’Edgar Allan Poe Historic Site di Filadelfia ha 15 mila visitatori l’anno, mentre meno di 5 mila si recano alla Poe House di Baltimora.
Ma perfino qualche suo concittadino non è d’accordo: «Poe appartiene in pieno alla narrativa di Baltimora – spiega la professoressa Liliane Weissberg, della University of Pennsylvania di Filadelfia ”, anche la locale squadra di football prende il nome da un famoso poema di Poe, The Raven ("Il corvo"). Filadelfia ha già Benjamin Franklin e ciò basta».
La sfida rischia di allargarsi, visto che altre città rivendicano lo scrittore. Come New York, dove viveva intorno al 1845, quando raggiunse la fama proprio con l’uscita di The Raven, e dove in passato i discendenti avevano pensato di trasferirne il corpo. O come Richmond, in Virginia, dove Poe era cresciuto e dove aveva detto di voler ritornare. Accampa pretese perfino Sullivan’s Island, in South Carolina, dove Poe visse da soldato nel 1827 e dove ambientò Lo scarabeo d’oro.
L’unica città che non appare interessata è quella natale, Boston, per la cui élite letteraria Poe ebbe parole di disprezzo. Il suo nome non viene mai fatto nel sito Internet della capitale del Massachusetts, che non ha né una statua, presenza immancabile nella rappresentazione pubblica americana, né un museo a lui dedicato. Come si dice, nemo propheta in patria.
Paolo Valentino