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 2008  settembre 09 Martedì calendario

la Repubblica, martedì 9 settembre Pescara. Dice Ottaviano Del Turco che il suo processo «non è un errore giudiziario»

la Repubblica, martedì 9 settembre Pescara. Dice Ottaviano Del Turco che il suo processo «non è un errore giudiziario». Dice che di questa storia, oggi, «appaiono finalmente nitidi l´incipit e la sostanza». Che Vincenzo Angelini, l´uomo che lo ha cacciato nell´abisso e che ora tornerà a indicarlo come il perno di una cricca di concussori e corrotti, «non è stato mosso da spirito di vendetta, ma dalla disperazione di chi si vede perduto», dal riflesso pavloviano del «morto che si afferra ai vivi». Perché «la verità degli incontri di Collelongo è un´altra». Ha avuto cinquanta giorni per pensare Ottaviano Del Turco. Ha lasciato il carcere di Sulmona la prima settimana di agosto e da allora è detenuto nella casa in cui è nato. Ora, alle otto del mattino, appoggiato alla balaustra in legno dell´aula 1 del tribunale penale, il suo discorrere si fa pacato, come ripulito da ogni ombra di rancore o anche soltanto di angoscia. Quasi fosse un mantra, ripete: «Il mio non è un errore giudiziario». Perché allora ricusa il giudice delle indagini preliminari? «Quando dico che la mia vicenda non è un errore giudiziario, voglio segnalare che qui non siamo di fronte a dei magistrati che hanno confuso l´identità del colpevole di un reato. Che accusano Del Turco delle colpe di altri. Ma ad una vicenda complessa che ha una spiegazione alternativa a quella che è stata prospettata. Firmando l´atto di ricusazione, ho invece voluto segnalare che una vicenda complessa richiede una serenità di giudizio di cui il gip mi è parsa priva». Di fatto, la ricusazione è una "difesa dal processo". O no? «Non è così. Io voglio difendermi nel processo. Ma in una cornice di garanzie. Come si può sostenere, come fa il gip, che il sottoscritto, dopo essersi dimesso da tutto, sarebbe ancora in grado di reiterare il reato e dunque deve continuare ad essere privato della libertà?». Lei dice: "Esiste una spiegazione alternativa della storia raccontata da Angelini". Quale? «Quando ne sono diventato presidente, l´Abruzzo era una regione canaglia per la qualità e l´importo della sua spesa sanitaria. Abbiamo fissato delle regole, chiudendo cinquanta anni di gestione in cui le regole non potevano essere violate per il semplice motivo che non esistevano. Abbiamo ridotto di un terzo la spesa e i posti letto in convenzione con le cliniche private. A qualcuno non è piaciuto». Dunque, Angelini si sarebbe vendicato calunniandola? «Non userei la parola vendetta». E quale parola userebbe? «Angelini è la risposta dei poteri forti, che a Pescara sono sempre esistiti, alla minaccia che il lavoro della giunta rappresentava per uno dei gangli vitali di chi ha vissuto per decenni dei profitti legati a una voce decisiva della spesa pubblica come quella sanitaria. Vede, quando Angelini, tra contraddizioni e inesattezze, ha cominciato ad accusarmi di fronte ai pubblici ministeri, era un uomo finito. Tecnicamente fallito, come ebbe a dirmi l´ingegnere Carlo De Benedetti quando ritenni di sollecitarne gli investimenti in Abruzzo. Non è vero che ricattavo Angelini. La verità è che nessuno voleva investire nelle sue cliniche perché il suo gruppo era di fatto fallito». Ma lei, Angelini, lo ha incontrato a Collelongo? «Certo che l´ho incontrato. Veniva da me perché era convinto che lo stessero per arrestare. Era ossessionato dalle indagini che la Procura e la Finanza avevano avviato a suo carico. Riteneva che fossi in grado di proteggerlo e non mi dava tregua. Figurarsi, proteggerlo io. Io che non conoscevo neppure il nome di un ufficiale della Finanza di Pescara». I magistrati osservano che però lei qualche finanziere a Roma lo conosceva. Al Comando generale, ad esempio, dove chiese udienza per lamentarsi delle indagini condotte sulla giunta. «Certo che volevo lamentarmi. Ma non perché qualcuno conduceva indagini. O per carpirne il merito. Volevo lamentarmi perché, nell´ultimo periodo, avevo constatato che i lavori della giunta erano intossicati da anonimi su cui, regolarmente, partivano indagini a tappeto. Io, nella mia vita, gli anonimi li ho sempre cestinati». Dunque, la Procura avrebbe fatto da buca delle lettere di quei "poteri forti" che avevano deciso di eliminarla. E´ così? «Diciamo che ha lavorato sotto la pressione oggettiva di quegli ambienti per cui il lavoro della Giunta era diventato intollerabile». E´ normale che 400 milioni di crediti sanitari vengano collocati sul mercato del debito scegliendo gli interlocutori finanziari, Deutsche bank, con procedure dirette, senza gara? «Ogni decisione è stata assunta coinvolgendo avvocatura, Asl, organi collegiali. Se ho fatto un errore, quel errore non è in un deficit di trasparenza». Qual è l´errore? «Politico. Ho sottovalutato la centralità del grumo di interessi che avevo deciso di aggredire e la risposta che ne avrei ricevuto». Non le è parsa a tratti un po´ pelosa la processione di parlamentari che si sono affollati nella sua cella? «Ho fatto politica per un vita. E certo non mi è sfuggito, in quel frangente, che l´obiettivo di Forza Italia era far esplodere le contraddizioni del Partito democratico. Che, comunque, sul sottoscritto è rimasto silente. In ogni caso, del carcere non è quello il ricordo che conservo e conserverò». Che ricordo conserva? «L´incrocio di sguardi, con due detenuti di mafia. Il loro sorriso beffardo. Io, ex presidente della commissione antimafia, e loro, 416 bis, in ceppi come me. Lì ho capito cosa è la ruota della vita e che ero in grado di difendere la mia dignità. Come del resto è accaduto anche questa estate». Cosa è accaduto? «Avevo chiesto di poter trascorrere due settimane in Sardegna con mia moglie. Mi è stato detto che era possibile, a patto che fossi sorvegliato giorno e notte. Mi sono immaginato in mezzo a due gendarmi e ho preferito rimanermene a Collelongo. La dignità non ha prezzo. E io non mi arrenderò finché non mi verrà restituita». Carlo Bonini