Antonio Pinelli, la Repubblica 5/9/2008, pagina 44., 5 settembre 2008
Di mostre se ne fanno tante, troppe. Specie in Italia, dove l´attività espositiva assorbe un´enorme quantità di energie e di denaro, che sarebbe invece utile, in questi tempi grami, dosare meglio
Di mostre se ne fanno tante, troppe. Specie in Italia, dove l´attività espositiva assorbe un´enorme quantità di energie e di denaro, che sarebbe invece utile, in questi tempi grami, dosare meglio. Lo denuncia in questi giorni un importante documento, messo in circolazione dalla sezione italiana dell´International Council of Museums (ICOM Italia), che rivolge un accorato appello alle pubbliche Amministrazioni e al mecenatismo privato, chiedendo a gran voce un´inversione di tendenza, che metta freno all´infestante proliferazione di mostre-evento di scarso o nullo valore culturale, votate ad un´effimera spettacolarizzazione fine a se stessa, «vuoti a rendere» che inducono artificialmente un consumo feticistico, bolle di sapone multicolori che lasciano dietro di sé praticamente il nulla. Un esempio fra i tanti ci è offerto da un´ambiziosa mostra realizzata dalla Fondazione Roma, che sfruttando fino in fondo le mirabolanti risorse dei nuovi mezzi elettronici, affronta un tema particolarmente ostico sul piano espositivo (Il ”400 a Roma. La rinascita delle arti da Donatello a Perugino, Roma, Museo del Corso, fino al 7 settembre). Il ”400 è un secolo cruciale per Roma, perché proprio a partire da quell´epoca i papi, ponendo fine allo scisma d´Occidente, si ristabiliscono definitivamente nell´Urbe e si votano anima e corpo a rilanciarne l´antica missione universale, canalizzando le istanze umanistiche più visionarie in un grandioso progetto di reincarnazione della Roma «caput mundi». L´arte, con la sua tensione ad emulare i fasti dell´antichità, ha un ruolo centrale in questo disegno politico-religioso, che punta a resuscitare la centralità della Roma imperiale nel segno di Cristo e del suo vicario in terra, tanto che tutti o quasi i migliori artisti finiscono per convergere a Roma e mettersi al servizio del mecenatismo papale e cardinalizio. Ma il problema è che quasi tutta la Roma quattrocentesca è stata inghiottita dalle successive trasformazioni della città e che la maggior parte di quel poco che resta dell´arte di quell´epoca è costituita da edifici, tombe monumentali o cicli di affreschi oggettivamente intrasportabili. I curatori hanno fatto del loro meglio per portare in mostra disegni, dipinti, sculture ed altri manufatti della Roma quattrocentesca, né mette qui conto rilevare le pecche e le approssimazioni in cui talvolta sono incorsi. Ma per surrogare ciò che non poteva essere trasportato in mostra, essi si sono affidati a tutti i mezzi disponibili di riproduzione, da quelli tradizionali a quelli più avveniristici. Con il risultato che il percorso espositivo si trasforma in una sorta di itinerario da luna park tecnologico, costellato di sorprese e meraviglie. Il visitatore calpesta tappeti elettronici che riproducono pavimenti di cappelle di Beato Angelico o di Pintoricchio, e se alza gli occhi al soffitto ne vede riprodotte le volte affrescate. Man mano che procede s´imbatte in opere originali che si alternano a calchi di sculture e a modelli lignei di opere intrasportabili o perdute, né gli viene negata l´opportunità di infilarsi i mitici occhialini a lenti rosso-verdi della nostra infanzia per ammirare in 3D una cappella di Filippino Lippi, che potrebbe più utilmente visitare dal vivo, trovandosi a non più di 600 metri in linea d´aria dalla sede della mostra. Come in Internet, dove il sapere è frantumato in tanti spezzoni erratici che è arduo ricomporre in un insieme coeso, il rischio è che questo eterogeneo mosaico di tessere informative non riesca a comporre un intero nella mente del visitatore, inducendolo ad un consumo frettoloso e superficiale, da videogioco. Difficile, del resto, con la presenza di tanti calchi e riproduzioni, distinguere tra vero e falso, originale e copia, autentico e ipotetico. Ragionando sull´allestimento dei musei archeologici, uno dei massimi studiosi del mondo antico, Paul Zanker, ha scritto parole che meriterebbero di essere incise nel bronzo: «Nessun medium elettronico può sostituire gli oggetti - le opere d´arte, le immagini, i manufatti - che nel museo sono fisicamente presenti, afferrabili, autentici, ciascuno con la sua propria storia, con il tempo trascorso che inerisce singolarmente ad esso. Grazie alla loro fisicità, questi oggetti resistono ampiamente alle manipolazioni derivanti dal modo di presentazione e conservano la loro autenticità, la loro aura. Ed è quest´aura dell´oggetto tangibile che suscita la nostra curiosità, che pone domande, che ci attira e ci conduce all´interno della storia particolare di esso. A differenza della maggior parte delle immagini mediatiche, che intendono catturarci e imporsi a noi mediante la loro quantità, il ritmo e la manipolazione della nostra mente, gli oggetti storici concreti agiscono attraverso la loro silenziosa presenza. (...) Gli oggetti storici non si rivolgono a noi urlando un qualche messaggio, ma parlano raccontando di altri tempi. In tal modo essi creano uno spazio di distanza per in nostri occhi, per il nostro pensiero, per la nostra sensibilità, rendendo possibili, proprio in virtù di ciò, nuovi sguardi non solo sugli oggetti in quanto tali, ma non di rado anche su noi stessi». Le mostre che inquinano con un eccesso di rumore di fondo questo silente dialogo tra spettatore e opere d´arte falliscono il proprio scopo costitutivo, la loro più vera ragion d´essere: suscitare in noi nuovi sguardi, domande e pensieri sul passato, su noi stessi. Antonio Pinelli