Adriana Bazzi, Corriere della Sera 4/9/2008, pagina 18, 4 settembre 2008
MILANO
Paradossalmente: se la medicina trovasse il modo per «rianimare » un cervello da elettroencefalogramma piatto (per dire, con un trapianto di staminali o un pacemaker cerebrale o qualche farmaco che lo rivitalizzi, anche senza pensare a stravaganti trapianti di testa), il criterio di morte cerebrale andrebbe davvero cambiato.
Il rapporto di Harvard nel 1968 aveva superato il concetto di morte cardiaca, arrivando alla definizione di morte cerebrale, anche perché i progressi scientifici dell’epoca avevano messo a disposizione dei medici le tecniche di rianimazione.
«Non è solo quello – commenta Roberto de Mattei, professore di Storia moderna all’Università europea di Roma, il cui volume, insieme a quello del professor Paolo Becchi, è stato utilizzato da Lucetta Scaraffia per sostenere la propria tesi sull’Osservatore Romano ”. Non dimentichiamo che, qualche mese prima della pubblicazione del rapporto di Harvard, Christian Barnard aveva eseguito il primo trapianto di cuore e dal momento che un cuore da trapiantare può essere ancora battente, con il vecchio criterio si rischiava di compiere un omicidio. La scelta di cambiare, dunque, è stata dettata più da esigenze etiche che scientifiche ».
Scienza, etica e filosofia si mescolano quando si parla di fine della vita come quando si parla di inizio. Anche quest’ultimo non è ben definibile in termini biologici perché è un processo graduale: «La condanna dell’aborto – commenta de Mattei che, da vice-presidente del Cnr, ha curato il libro Finis vitae. La morte cerebrale è la fine dell’individuo? (Rubettino editore), spunto dell’attuale dibattito – è una posizione garantista: nell’ipotesi scientifica che si tratti di vita umana, si considera l’embrione come essere umano. Ecco, vorrei dire che mentre la Santa Sede è garantista nella difesa dell’embrione, non lo è altrettanto nelle difesa dei momenti terminali della vita».
La definizione di morte cerebrale, dunque, non sarebbe scientifica, perché, mentre con la morte cardiaca ci si limitava ad «accertare» la morte, con i criteri di Harvard si pretende di «definirne » il momento. «Ma il cervello non è l’organo integratore del corpo, o almeno la scienza non lo ha ancora dimostrato – continua de Mattei – e non è detto che quando il corpo perde un organo con funzioni direttive, come il cervello, vada inevitabilmente incontro a dissoluzione».
Alcune ricerche scientifiche lo dimostrano. Alan Shewmon, neurologo dell’Università della California a Los Angeles, descrive il caso Tk, di un bambino che a 4 anni aveva avuto una diagnosi di morte cerebrale e che oggi a 18 continua a vivere. Joseph Evers, pediatra dell’American Academy of Pediatricians
ricorda che embrioni, ancora privi di un organo integratore centrale, sono esseri viventi. E Paolo Becchi, professore di Filosofia del Diritto all’Università di Genova, autore del libro
Morte cerebrale e trapianti di organi (Morcelliana Editore), dice: «Anche in caso di morte cerebrale accertata secondo i criteri usuali, alcune funzioni rimangono attive: per esempio, due ghiandole che si trovano nell’encefalo, l’ipofisi e l’ipotalamo, continuano a secernere ormoni. Il sospetto che i criteri di morte cerebrale siano stati stabiliti per facilitare gli espianti esistono».
A questo punto, scientificamente parlando, andrebbero incoraggiati gli studi e le ricerche sul cervello e sulla rivitalizzazione degli organi. E magari capire, dal momento che il principio vitale non sarebbe il cervello, che cos’è davvero la vita. In un film statunitense del 2003, firmato dal regista Alejandro Gonzales Inarritu, che parla di incidenti stradali e trapianti, di inseminazioni artificiali e di aborti, di morte e di vita, quest’ultima è qualcosa che pesa «21 grammi», tanto quanto l’anima che se ne va.
Adriana Bazzi