Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  settembre 04 Giovedì calendario

ST. PAUL

(Minnesota) – «John è l’uomo giusto per l’America. pronto a prendere le redini del Paese. un leader che sa guardare lontano e un uomo coraggioso. In prigione i vietnamiti gli spezzarono le braccia, ma non riuscirono a piegare il suo onore». Quello di Bush a sostegno di McCain sembrava, l’altra sera, il discorso di un ammiratore sincero. Il suggello di un’alleanza. Anni di colpi bassi, attacchi e rappresaglie sepolti sotto l’ammissione che i rapporti tra i due sono stati spesso tempestosi («Quando non è d’accordo, John non te lo manda a dire. Ne so qualcosa») condita, però, col riconoscimento che il temperamento ribelle di McCain ha i suoi vantaggi («con la sua indipendenza e il suo carattere forte ha già cambiato la storia»).
La crisi del 2000, le falsità messe in giro per frenare la corsa del senatore dell’Arizona verso la «nomination» repubblicana, sembrano vicende remote. McCain aveva vinto le primarie del New Hampshire e i sondaggi lo davano in testa anche in South Carolina. I consiglieri di Bush decidono di attaccarlo anche con colpi bassi. Per il senatore e la sua famiglia sono giorni durissimi: viene fatta circolare la voce che McCain ha una figlia illegittima di colore e che la moglie Cindy si droga. In realtà una bimba con la pelle scura in casa McCain c’è: Bridget, trovata da sua moglie in un orfanotrofio del Bangladesh e regolarmente adottata. E Cindy prende medicine per curare una malattia nervosa. Le insinuazioni sono più forti delle elementari verità: il vantaggio di McCain nei sondaggi evapora. Durante un intervallo pubblicitario di un dibattito in tv, Bush prende per un braccio il suo rivale e gli dice: «Mi spiace per quegli attacchi. Non c’entro niente, lo giuro». La risposta è violenta, in puro stile McCain: «Non dire stronzate e levami le mani di dosso» (ricostruzione del settimanale Time, mai smentita). Bush conquista a sorpresa il South Carolina. McCain dopo poco si ritira.
Tutto dimenticato, sepolto? Niente affatto. Tra i due le scintille sono continuate, fino a ieri. Bush insisteva per Romney vicepresidente. McCain non solo ha ignorato il candidato della Casa Bianca ma, secondo i consiglieri del presidente, ha voluto ribadire la sua totale indipendenza dalla dirigenza repubblicana scegliendo un personaggio lontanissimo dai giochi di Washington.
E il fatto che, causa uragano Gustav, la presenza di Bush alla «convention » si sia ridotta ad una breve apparizione in video è stato accolto con sollievo dalla «squadra» di McCain. Perché, anche se sono costretti a vivere nella gabbia di una mutua dipendenza, tra i due rimane un risentimento profondo. Così, ogni volta che si incrociano, il presidente e il candidato finiscono per recitare lo spartito concordato con la disinvoltura di un automa.
Il più tormentato è sicuramente il senatore dell’Arizona: per gli attacchi del 2000 che ebbero un enorme costo politico per lui e dai quali la moglie, la fragile Cindy, impiegò anni a riprendersi. E per le circostanze attuali che lo costringono ad abbracciare il presidente più impopolare dell’ultimo secolo, dando così forza alla campagna di Obama che parla della presidenza McCain come di un «terzo mandato Bush ».
McCain, che per anni ha attaccato dal Senato la politica della Casa Bianca, ora non può rifiutare quell’abbraccio: perderebbe ogni speranza di recuperare il voto della destra evangelica che diffida di lui, considerandolo un battitore libero poco legato ai valori conservatori fin qui interpretati dal presidente.
Ad un recente comizio, un sostenitore gli ha chiesto quasi con le lacrime agli occhi cosa aspettasse ad andare davanti alle telecamere e a dire agli americani: «Guardatemi bene: la mia non sarà affatto un’altra presidenza Bush». McCain se l’è cavata con un sorriso forzato ed è passato oltre.
Non sempre i rapporti sono stati così tesi. Un tempo i due non si guardavano in cagnesco. Anzi, a molti sembravano personaggi abbastanza simili: rampolli di dinastie che da almeno tre generazioni gestiscono una fetta di potere (politico e militare) a Washington; tutti e due ragazzi turbolenti con una certa tendenza all’abuso di alcol e studenti assai poco brillanti. Storie parallele che finiscono con la guerra del Vietnam dalla quale McCain esce da eroe, Bush da «imboscato».
Ancora all’inizio del 2000, quando era iniziato il duello tra i due per succedere a Bill Clinton, McCain non riusciva a detestare il suo rivale: lo considerava un «peso leggero», un personaggio di scarso spessore, ma, comunque, uno che credeva nella sue idee.
Tutto cambia con gli attacchi «sotto la cintura» imputati alla mente diabolica di Karl Rove, lo stratega delle vittorie elettorali di Bush. Un nemico mortale di McCain che ora rispunta al suo fianco dietro la figura di Steve Schmidt, il suo pupillo che è diventato il regista della campagna di «maverick» John.
Massimo Gaggi