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 2008  settembre 04 Giovedì calendario

Quel 28 agosto del 1950 era un lunedì, avevo tredici anni e leggevo Stampa Sera. Il titolo su tre colonne diceva: «Lo scrittore Cesare Pavese si è suicidato»

Quel 28 agosto del 1950 era un lunedì, avevo tredici anni e leggevo Stampa Sera. Il titolo su tre colonne diceva: «Lo scrittore Cesare Pavese si è suicidato». Leggevo e pensavo: com’è possibile che uno che è riuscito a raggiungere il più ambito dei traguardi, decida di togliersi la vita? Così, per capire, ho cominciato a cercare e a leggere i suoi libri. Sono partito dal fondo, dalla parola fine. Ancora non lo sapevo ma quel giorno diventavo un pavesiano, come tanti altri della mia generazione. E lo sarei stato per sempre. La sua figura si è stagliata all’orizzonte dei nostri anni giovanili, ha abitato la nostra mente, ha orientato i nostri gusti e persino i nostri gesti. Nessuno ci aveva ancora spiegato che non bisogna leggere le opere di un autore alla luce della sua biografia; del resto con Pavese è un’impresa impossibile. Per fortuna non si studiava ancora a scuola, gli insegnanti non avevano iniziato a dissezionare le sue pagine con il bisturi arrugginito di uno strutturalismo di seconda mano. Qualcuno ha parlato a proposito di questo fenomeno come di una febbre dell’adolescenza; l’infatuazione per Pavese come un rito di passaggio. Indossavamo sciarpe come quella che si vede in una sua fotografia, sfondavamo le tasche dei cappotti riempiendole di libri presi in prestito all’Usis (gli americani tradotti da Pavese), frequentavamo le «piole» della collina. I vecchi avventori ci guardavano stupiti mentre ordinavamo una bottiglia «stupa» di barbera (e pensare che Pavese beveva solo vino bianco, il rosso gli ricordava il sangue). Andavamo a remare sul Po dopo aver noleggiato una barca; terrorizzato dalla paura di cadere in acqua, al ritorno baciavo mentalmente la sponda. Per esibire un paio di occhiali con una montatura identica alla sua avevo preteso una visita oculistica per avere delle lenti che facessero «riposare la vista». La sua America era la nostra America: come noi, Pavese non era stato all’estero, non aveva mai preso un aereo, di suo si era spinto solo fino a Roma (a Brancaleone Calabro l’aveva condotto la condanna al confino). Nel suo saggio su Sherwood Anderson (Middle West e Piemonte) Pavese ci aveva spiegato che anche noi potevamo essere America, bastava volerlo. La sua goffaggine nei luoghi mondani (premio Strega, il set di Riso amaro, Cervinia) era la nostra goffaggine. I suoi silenzi, i nostri silenzi. I suoi bronci i nostri bronci. Il tragico destino che Pavese riservava alle eroine dei suoi romanzi (la Gisella di Paesi tuoi inforcata dal fratello Talino, la Rosetta di Tra donne sole suicida, la Santina de La luna e i falò fucilata e bruciata) vendicava le nostre sconfitte con l’altro sesso. Oh, l’acre piacere di essere riconfermati nel ruolo di perdenti! Cesare Pavese dunque cattivo maestro, modello negativo per la nostra generazione e per quelle che sono venute dopo? Al contrario, sacrificando la sua vita, come un capro espiatorio, ha salvato la nostra. Se un piemontese vuole fare della scrittura il mestiere della sua vita, sappia che niente gli verrà regalato, che nessun dono gli giungerà dal cielo. Già l’aveva scritto Enrico Thovez in Augusta Taurinorum, riferendosi a Torino: «debbo a lei se l’enfasi e l’orpello e la megalomania, che sembrano fiorire con singolar predilezione nelle sedi benedette dall’arte e rese immobili dalla storia, non mi hanno mai teso i trabocchetti. Sì, io le debbo di aver creduto che l’arte sia una cosa seria, non un gioco, e che anche in essa il carattere sia una cosa necessaria». Pavese l’aveva capito e ha impostato la sua vita secondo un eroismo quotidiano, di serietà, di fatica, in una prospettiva di lavoro, lavoro e poi ancora lavoro. In linea con il motto degli Alpini: «Fa’ il tuo dovere e crepa!». A Santo Stefano Belbo, presso la Fondazione, si possono vedere i fogli sui quali Cesare, scrittore già celebre, stilava liste di parole trovate sui dizionari, con l’umiltà dell’artigiano che non ha mai finito di migliorarsi. Nella linea di Piero Gobetti, di Vittorio Alfieri, ma il Trageda almeno si concedeva qualche piacere, i cavalli, le malmaritate, la cioccolata. Pavese mangiava senza neanche accorgersi di quello che aveva nel piatto. Se mi chiedono di descrivere il carattere dei piemontesi ricorro all’immagine di Pavese, tornato al lavoro dopo che nella notte un bombardamento su Torino aveva quasi demolito la sede della casa editrice Einaudi; si è seduto alla scrivania e, facendo scorrere l’avambraccio sul ripiano del tavolo ha spazzato a terra i calcinacci e la polvere che l’ingombravano. E si è rimesso al lavoro. Questa strenua volontà di costruire l’uomo nuovo è tanto più ammirevole in quanto Pavese stesso sapeva che era destinata a fallire. Con le sue riflessioni sul mito, sulle radici della poesia, con i libri di etnologia e antropologia fatti pubblicare nella Collana Viola, con la poesia sul dio-caprone che «spruzza e ubriaca di un sangue più rosso del fuoco»; con i dialoghi con Leucò (La belva), ha dimostrato che la natura dell’uomo è immodificabile, che l’uomo ubbidisce a pulsioni ancestrali, che grattata via la sottile crosta della civilizzazione, esce fuori la bestia. Qui sta il sentire tragico della vita che, grazie a Pavese, ha innervato la nostra visione del mondo e ci ha reso impermeabili alle tentazioni di una stagione abbietta. Qui sta quella maturità che Pavese (Quell’eterno ragazzo, come recita il titolo della bella biografia di Lorenzo Mondo) non è mai riuscito a raggiungere. Con la sua tragica fine, Pavese ci ha insegnato che i libri, che la letteratura praticata come una religione, non salvano la vita. Che l’ostinata fedeltà a un progetto perseguito fino all’estremo ci rende rigidi e allo stesso tempo fragili come cristalli. Per fortuna il «cantiere Pavese» è sempre aperto, nessuna sistemazione è mai definitiva, ogni generazione deve misurarsi con la sua opera, prodigiosa per profondità di scavo e ampiezza di echi. Bruno Gambarotta