Luigi La Spina, La Stampa 4/9/2008, pagina 1, 4 settembre 2008
Questa è la storia di un grattacielo che doveva essere il simbolo del ritrovato orgoglio di Torino e che rischia, invece, di fare la fine della biblica Torre di Babele, monumento incompiuto alle discordie e alle rivalità degli uomini
Questa è la storia di un grattacielo che doveva essere il simbolo del ritrovato orgoglio di Torino e che rischia, invece, di fare la fine della biblica Torre di Babele, monumento incompiuto alle discordie e alle rivalità degli uomini. Una storia che racconta una sfida tra nuove e vecchie ambizioni di potere, che corre sul solito asse di amore-odio fra due città cugine, che rivela le trame d’ipocrisia di un recente matrimonio e che viene recitata da illustri protagonisti. Sindaci, banchieri, avvocati, architetti. Insomma, un moderno feuilleton, di sicuro più avvincente di quelli che si vedono in tv. Come in tutti i romanzi a puntate, è d’obbligo un breve riassunto degli episodi precedenti. La prima scena si svolge a Torino. La città è divisa da due sentimenti in conflitto: da una parte, la soddisfazione per lo sviluppo di una immagine nuova, fatta di una rivoluzione urbanistica imponente e coraggiosa, del superamento della crisi per la sua maggiore industria, per la bella prova recitata sul palcoscenico mondiale delle Olimpiadi. Dall’altra, il timore di un possibile ritorno nell’ombra dell’attenzione nazionale, nella periferia del potere che conta davvero nell’Italia del nuovo secolo. Allegoria concreta di questo rischio è l’allarme per le nozze della più importante banca torinese, il Sanpaolo, con la milanese Intesa. L’antica rivalità con la cugina lombarda si concentra sul comportamento del tradizionale patron degli interessi subalpini, Enrico Salza. Il massiccio banchiere, burbero ma schietto protagonista di tante vicende torinesi, viene accusato, più o meno esplicitamente, di aver tradito la sua città, destinando il Sanpaolo a un ruolo decisionale subalterno rispetto a Milano. Il secondo atto lancia subito alla ribalta due attori. Sono il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, che cerca nell’urbanistica la risorsa fondamentale per evitare la caduta post-olimpica della sua città e lo stesso Salza. Il primo pensa a una serie di grattacieli, simbolo della nuova immagine della capitale subalpina. Il secondo gliene offre subito uno, frutto precoce del clamoroso matrimonio creditizio, prova inconfutabile di come gli interessi di Torino siano tutt’altro che sottomessi alle volontà milanesi. Tra le quinte, l’amministratore delegato della banca, il lombardo Corrado Passera, sembra abbozzare, sia pure senza troppi entusiasmi. Il costo dell’opera viene stabilito in circa 300 milioni, il progetto è affidato a una delle glorie nazionali nell’architettura moderna, il genovese Renzo Piano. Si cominciano a spendere soldi, pare 120-140 milioni, per realizzare il grattacielo entro il 2011, l’appuntamento più importante per il futuro torinese: le celebrazioni per i 150 anni dell’unità nazionale. Sono sempre i due protagonisti di prima, Chiamparino e Salza, che si dividono le parti anche nel terzo atto. Ma questa volta non si scambiano sorrisi e strette di mano. La scena, infatti, li mostra impegnati in un durissimo scontro di potere. Il sindaco decide di puntare su un influente avvocato d’affari, Angelo Benessia, quale nuovo presidente della Compagnia di San Paolo, il più importante azionista della banca sorta dalla fusione. Pensa che sia l’uomo giusto per difendere gli interessi di Torino dalle mire egemoniche dei milanesi. Salza, invece, ritiene che un prestigioso costituzionalista come Gustavo Zagrebelsky sia la scelta più opportuna. Alla fine, vince il sindaco e Benessia comincia a tessere la tela del nuovo potere tra le due città. Esaurita la sintesi delle puntate precedenti, indispensabile per capire i piccanti colpi di scena degli ultimi tempi, il romanzone del grattacielo torinese si accende in una sarabanda di accuse incrociate. Si diffonde la voce che la lievitazione dei costi dell’impresa, fino a 600 milioni di euro sostengono alcuni, approfondiscano i dubbi di Passera sull’opportunità dell’opera e che, perciò, il progetto sia destinato all’accantonamento. Insomma, che la vecchia e cara Mole possa restare sola a simboleggiare il volto della città. Chiamparino, naturalmente, è furibondo. Anche perché deve subire l’attacco di una parte del suo partito che è scettica sul progetto grattacieli e, soprattutto, l’offensiva degli alleati d’estrema sinistra nella sua coalizione, che sono contrari. Sospetta, perciò, quinte colonne subalpine, alleate insospettabili delle freddezze milanesi. Il più furibondo di tutti, e il più sospettoso di tutti è, però, Salza che, nonostante tutto, si dice sicuro che il progetto non naufragherà. L’affossamento dell’opera proverebbe la debolezza della sua posizione nella difesa degli interessi torinesi e segnerebbe un colpo decisivo alla sua volontà, come un vecchio leone, di non mollare un millimetro del suo potere negli affari della città. Ecco perché il suo elenco dei sospettati è affollatissimo. A Chiamparino, imputa di fare la voce grossa, ma poi di non saper imporre alla sua inquieta maggioranza le decisioni concordate. Ai milanesi suoi colleghi nella banca, di cercare solo pretesti per rinnegare un patto che avevano digerito solo per convenienza e che meditavano fin dall’inizio di tradire. A Benessia, di svolgere un ruolo ambiguo, per assumere una funzione di protagonista negli affari che riguardano le due città. In parole crude ma efficaci, per esautorarlo e così poter subentrare a lui nella posizione di «eminenza grigia». La puntata, ieri, è finita così; ma la storia promette sviluppi imprevedibili. Conviene non perdere le prossime, anche perché i grattacieli sono, da sempre, simboli della mutante geografia del potere. Dalle torri di San Gimignano alle torri gemelle di New York. Luigi La Spina