Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 3/9/2008, pagina 39, 3 settembre 2008
Una premessa: «Parliamo di tutti, ma per favore non degli autori italiani viventi». Prendere o lasciare
Una premessa: «Parliamo di tutti, ma per favore non degli autori italiani viventi». Prendere o lasciare. Gian Arturo Ferrari sa bene come vanno le cose e vuole evitare ogni equivoco che possa sfiorare la sensibilità dei suoi autori. Dunque? Prendere. Trentacinque anni nel mondo editoriale sono più che sufficienti per conoscere gli scrittori. Nel suo ampio studio di Segrate, Ferrari tiene sottovetro una lettera datata 20 settembre 1963 in cui un dirigente mondadoriano liquidava ogni sua speranza giovanile con poche frasi di cortesia: «Non possiamo avvalerci della Sua collaborazione dato che l’organico del nostro personale è completo». Nessuno poteva immaginare che quel ragazzino, allora diciannovenne, sarebbe arrivato a occupare la poltrona più alta della divisione libri, quella di direttore generale. Partendo nel ’72 e da molto vicino, esattamente da EST, Edizioni Scientifiche e Tecniche Mondadori. Da lì a Torino, nel ’74. In mezzo, una laurea in Lettere classiche a Pavia. «Renata Colorni si era trasferita dalla Franco Angeli alla Boringhieri per coordinare le traduzioni di Freud: e quando se ne andò il redattore della collana scientifica divulgativa, fece il mio nome all’editore». Paolo Boringhieri lo assume. Nel frattempo Ferrari vince il concorso per assistente di Storia della filosofia antica, ma l’editore gli consiglia di tenere il piede in due scarpe e, così, da allora Ferrari si divide tra università e editoria. «In breve tempo divenni l’assistente dell’editore, mentre Renata, con il suo consueto vigore, da "uomo di fatica" e da grande stratega napoleonico portò avanti il Freud senza sgarrare». E Cesare Musatti? «Boringhieri pensava che l’editoria fosse un servizio reso all’assoluto, si aspettava che tutti lavorassero in letizia e per il bene suo, ma Musatti aveva anche altro da fare... Boringhieri era un grande editore, un uomo complicato, un protestante svizzero allievo di Felice Balbo, fondatore della Sinistra cristiana. Pensava a una grande rivoluzione scientifica». Si narra della sua leggendaria parsimonia: «Mah, tutti gli editori erano parsimoniosi. Solo Einaudi era diverso, si illuse di essere alla vigilia di una rifondazione del sapere di cui lui era il protagonista. Boringhieri aveva una visione meno demiurgica, badava al sodo». Nell’84 Ferrari lascia Torino e rientra in Mondadori come editor della saggistica, e ha a che fare con autori «più domestici» rispetto a quelli della Boringhieri. Per esempio, Enzo Biagi, che con lo scandalo P2 aveva lasciato la Rizzoli: «Un emiliano duro e concreto, senza orpelli, grandissimo professionista dell’editoria. Quando arrivai, aveva l’idea di allestire un libro che fosse una sorta di sunto della sua esperienza giornalistica. C’era già il titolo, Millecamere. Pensai che sarebbe stato giusto presentarlo come un’opera testamentaria e preparai una fascetta che diceva: La mia vita, la mia verità. Da uomo pratico, Biagi non si offese per nulla, anzi ne fu contentissimo». Nell’86, Ferrari è direttore editoriale della Rizzoli. Dove incontra Mario Soldati, che «da socialista craxiano sperava che prima o poi qualcuno lo facesse senatore a vita ». Scrittore straordinario, rivalutato di recente, e uomo altrettanto eccezionale. Un episodio tra tanti: «Barcellona ’87. Eravamo lì per presentare El Paseo de Gracia: gli demmo una quota consistente di pesetas per le piccole spese. Dopo una mezz’ora lo sento berciare e protestare: come faccio ora a girare per Barcellona? Aveva speso tutto comperando delle camicie di lino per i figli in un negozio di fronte all’albergo...». E il suo alter ego più giovane, Cesare Garboli, che ne fu il vero fautore critico: «Una volta a Viareggio scoprii che si faceva chiamare Ingegnere: il padre era stato impresario edile e Cesare ne aveva ereditato il titolo. Ricordo che nel suo ristorante preferito i camerieri lo chiamavano Ingegnere e lui, tra imbarazzo e soddisfazione, assecondava». Due anni e Ferrari torna alla Mondadori. Il primo nome che gli viene in mente è quello di Maria Bellonci. Con un sorriso: «Aveva una voce impostata e dannunziana, da gran signora. Viceversa, Anna Maria Rimoaldi, che in gioventù era stata attrice di teatro, quando si accompagnava alla Bellonci, per devozione, accentuava di molto le cadenze romanesche». Con il secondo ritratto mondadoriano usciamo decisamente dai confini domestici: John Le Carré, che Ferrari conobbe a Roma nell’89 in occasione dell’uscita di Casa Russia: « un personaggio de La spia perfetta: dalla figura del padre truffatore è derivata buona parte della sua narrativa della doppiezza e della duplicità. Le Carré è un vero attore, fa le imitazioni più varie: l’indiano e il russo che parlano inglese... Uno dei personaggi che preferisce interpretare è quello del gentiluomo britannico che lui non è. un tipo plastico, intelligente, multiforme: se si trova in un ristorante italiano, pur non essendo un lord mangia l’astice come ritiene che debba mangiarlo un lord inglese in viaggio in Italia». L’opposto di Le Carré? John Grisham: «Molto americano del Sud, né urbano né tantomeno newyorkese. Una persona estremamente onesta nel disporsi rispetto alla vita e agli altri. Intelligenza complessa: basti guardare la tortuosità dei suoi meccanismi letterari. Una mentalità scacchistica, che prevede sempre una mossa in più dell’avversario ». Ripensando ai molti caratteracci che ha incontrato, Ferrari propone una bella metafora dello scrittore: «Un minatore che si cala in un pozzo interiore, e quando ne esce non può rendersi conto facilmente del mondo né di se stesso: il compito di un editore è quello di offrirgli una superficie riflettente che non ne distorca l’immagine». Caratteracci? Martin Amis: «Inafferrabile, è uno che si copre e fugge sempre». Philip Roth, autore di casa Einaudi (proprietà Mondadori e come tale sottoposta anche alla regia di Ferrari): «Roth è un gentiluomo affabile ma assolutamente impenetrabile. Rimane sempre molto remoto. E molto charming non solo nei confronti delle donne: del suo fascino ha fatto una professione. Grande classe, gentilezza e cultura. Ebreo come Bellow, ne ha ereditato l’eleganza dell’intelligenza. Il più affascinante degli autori che ho conosciuto». Tra i più amati, Thomas Harris, il padre di Hannibal Lecter: «Una letteratura d’intrattenimento che si avvicina alla narrativa d’arte. Harris è stato un grande inventore. Quando vidi il titolo originale del romanzo, Il silenzio degli agnelli, dissi: qui in Italia si rischia la confusione con la famiglia Agnelli... e proposi di cambiarlo. Fu l’editor di narrativa straniera, Giancarlo Bonacina, a farmelo conoscere». Un caratteraccio anche Harris? Anche lui simile ai suoi personaggi? «Simile al lurido giornalista ficcanaso che in Red Dragon viene bruciato vivo dal killer: è una specie di pallottolo dall’aria non ostile né arrogante. Un tipo molto mite, timidissimo». Il ricordo di un incontro nella villa di Miami. Attraccato, a pochi passi, un cabinato di gran lusso: «In casa teneva tutte le cose che deve avere un americano ricco: un cavallo cinese in terracotta, un bellissimo kilim, un quadro astratto... A un certo punto mi avvicino alla libreria e vedo un libro italiano, della De Agostini, intitolato Grandi armi da taglio. Era quello il suo chiodo fisso». E poi ancora. Salman Rushdie: «Il più logorroico, gesticola, parla in continuazione, non sta fermo un momento, lo vidi tre giorni prima della fatwa e poi tre anni dopo: era molto provato, tener chiuso e fermo un tipo così è quasi impossibile». E per finire Susan Sontag: «Già molto malata, nell’ottobre 2003, a Francoforte per il Friedenpreis pronunciò un bellissimo discorso intitolato La letteratura è libertà. Rievocò un episodio davvero emozionante della sua infanzia di bambina ebrea. Lei in genere era tutto tranne che commovente, anzi era irosa e impulsiva, complicata. Ti saltava addosso per niente, partiva dal concetto che l’editore comunque voleva metterle i piedi in testa. Ma l’ultima volta a Francoforte, vedendola così malata pronunciare quel discorso, mi misi a piangere». Una folla di personaggi, ogni personaggio almeno un libro, ogni libro almeno un ricordo. Una biblioteca di ricordi: comici, irritanti, assurdi, commoventi. «In questo mondo, è un bellissimo vivere, davvero un bellissimo vivere...». Paolo Di Stefano