Adriana Bazzi, Corriere della Sera 3/9/2008, pagina 6., 3 settembre 2008
Fino a quarant’anni fa una persona si considerava morta quando il suo cuore cessava di battere. Poi arrivò il Rapporto di Harvard
Fino a quarant’anni fa una persona si considerava morta quando il suo cuore cessava di battere. Poi arrivò il Rapporto di Harvard. Il 5 agosto 1968 il Journal of American Medical Association pubblica un documento, messo a punto dai medici della famosa università americana, guidati dall’anestesista Henry Knowles Beecher, che parla di morte cerebrale. Secondo la nuova definizione, che vale ancora oggi, la vita finisce quando si verificano contemporaneamente tre condizioni: il coma, la perdita irreversibile di qualsiasi attività cerebrale e l’impossibilità di respirare autonomamente. In altre parole: encefalogramma piatto. «Negli anni Sessanta, quando i medici si sono resi conto che le nuove tecniche di rianimazione potevano far ripartire il cuore – commenta Luigi Beretta, professore di anestesia e rianimazione all’Ospedale San Raffaele di Milano – hanno modificato il concetto di morte e hanno introdotto quello di morte cerebrale». Attualmente ci sono criteri clinici (per esempio test che valutano la respirazione) e strumentali (l’elettroencefalogramma, appunto, che misura due volte in sei ore l’attività del cervello prima di decretarne la morte) previsti dalla legge italiana. In qualche caso si ricorre anche a indagini più sofisticate come l’angiografia; si inietta, cioè, un liquido di contrasto nella circolazione sanguigna: in caso di morte cerebrale i vasi sanguigni non "si colorano", il che significa che il sangue non arriva al cervello e che quest’ultimo è in necrosi. «Una volta che si è accertata la morte cerebrale – continua Beretta – si può procedere all’espianto degli organi o, comunque, si stacca "la spina", si stacca, cioè, il ventilatore, perché non c’è più niente da fare». Adesso si ricorda il caso clamoroso di una donna che nel 1992 era entrata in coma irreversibile, era stata dichiarata clinicamente morta e risultò poi incinta: si decise allora di farle continuare la gravidanza e questa proseguì fino a un aborto spontaneo. Come dire che la morte cerebrale non necessariamente significa la morte del corpo. «Se parliamo di corpo e non di individuo è così – conclude Beretta – tant’è vero che si possono prelevare organi vitali nel giro di alcune ore, ma il corpo viene tenuto in vita grazie alla terapia intensiva e comunque sopravvive per un periodo limitato di tempo perché poi gli organi vanno incontro a instabilità. Un corpo senza un cervello integro non può continuare a vivere». Adriana Bazzi