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 2008  agosto 31 Domenica calendario

LA OROYA

(Perù) – «Praticamente, noi viviamo come in una camera a gas», questa l’angosciosa metafora cui ricorre l’arcivescovo di Huancayo, Monsignor Pedro Barreto, per spiegare il dramma di La Oroya, dove il grande complesso minerario siderurgico Doe Run sprigiona ogni giorno nell’aria tonnellate di polvere di piombo, ossido di zolfo, zinco e arsenico. Al punto da essere collocata al sesto posto nella graduatoria dei dieci luoghi più inquinati del mondo.
Instancabile promotore di iniziative socio- economiche, il cinquantenne prelato si è anche imposto su scala nazionale come uno dei più inflessibili paladini della difesa dell’Ambiente. Ne ho avuto conferma durante un breve incontro nel Vescovado di Huncayo, dove mi ero recato per conoscere il suo parere sull’infuocato dibattito del giorno: e cioè il conflitto tra quanti sostengono che la grande azienda dovrebbe continuare la propria attività, nonostante gli effetti negativi prodotti da quei veleni sugli abitanti della regione (irritazione oculare, infiammazione delle vie respiratorie, edema polmonare, disturbi al sistema circolatorio); e quanti, al contrario, ne reclamano la chiusura immediata, non essendoci al mondo niente di più importante della salute.
«Personalmente – dice il prelato, sobrio ed elegante nel clergyman grigio ”, sono contro lo sfruttamento irrazionale delle risorse del pianeta. Si tratta inoltre di un problema etico oltre che scientifico e la Chiesa non può tollerare una situazione simile. Qui mi considerano un antiminero, uno che sta contro i minatori e se la fa coi padroni del vapore. Un paio d’anni fa mi minacciarono di morte».
Ma Monsignor Barreto non si è neppure schierato con la multinazionale Doe Run, che è sostenuta dallo Stato, dal governo, dalle autorità regionali e provinciali: e non riesce a contenere uno scatto d’ira quando sul giornale locale la grande Azienda afferma di avere apportato notevoli «miglioramenti ambientali » a La Oroya. «Sono veramente indignato – sbotta ”. Ma come si fa a dire una sciocchezza simile? Le cose stanno peggio di 4 anni fa. L’inquinamento è aumentato. Solo pochi giorni orsono, il 13 agosto, è stata registrata un’incredibile concentrazione nell’aria di ossido sulfureo di 27 mila microgrammi per metro cubo, mentre per la legge peruviana e secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità il livello massimo avrebbe dovuto essere di 364 microgrammi, uno stato d’emergenza durante il quale la popolazione avrebbe dovuto tappare porte e finestre e tenere i piccoli in casa. Ma nessuna regola fu rispettata. Le strade erano piene di gente, i bambini giocavano sui marciapiedi come niente fosse».
Situata sulla cordigliera andina a 3.750 metri, La Oroya, quando la vedi per la prima volta venendo da Lima e sbucando giù dal Passo Tiglio (che è a quota cinquemila) ti mette addosso tristezza. in fondo a una vallata piuttosto angusta, in mezzo a dorsi di
montagne brulle e il pennacchio di fumo bianco che sbuca dalla sommità della ciminiera (alta 170 metri) comincia subito a raccontarti storie di ricchezza e di miseria: fin da quando, nel 1922, la multinazionale americana Pasco Copper Corporation costruì la fonderia destinata a processare, in grande quantità, minerali impuri – oro, argento, piombo, rame, zinco – nascosti nelle viscere della terra.
La valle si riempì di fumo nero mentre una pioggia velenosa devastava i campi e culture. Le cronache del tempo e un prezioso libro di Josh De Wind dal titolo (traduco direttamente dall’inglese) «I contadini divennero minatori » riferiscono di stragi di capi di bestiame e devastazioni agricole per migliaia di ettari. Ma anche quando, 50 anni dopo, la Pasco Corporation cedette la fonderia al governo peruviano, molto poco venne fatto per ridurre e contenere l’inquinamento.
Nel 1977, il presidente della multinazionale Doe Run che acquistò il mastodontico complesso, Bruce Neil, sosteneva con orgoglio che l’inquinamento dell’aria era stato ridotto del 25 per cento, mentre quello dell’acqua fino al 90 per cento. Riduzioni che erano state imposte in seguito ad un accordo tra l’azienda privata e il governo peruviano. Ma è un fatto – assicurano gli uomini di scienza, permanentemente allergici, per indole, alla favole – che la raffineria ha continuato a pompare gas tossici e ossidi letali.
Oggi, passeggiando per La Oroya vecchia, il cui fascino è decisamente maggiore di quella nuova, l’odore, quel particolare odore, continua ad aggredirti alle narici e ad «appesantirti », col risultato che anche la camminata si fa più lenta e faticosa. Commossa davanti alla mia gracilità senile, un’anziana signora – il volto e il collo avvolti in un gomitolo di trecce grigie – consiglia il «maté», l’infuso di foglie di coca che a quell’altitudine fa miracoli. Quando piove la sensazione di malessere è maggiore: è anche peggio quando tira «el viento malo», il vento cattivo, e i bambini vanno a barricarsi in casa per sfuggire alla sue raffiche.
Sono proprio loro – i bambini al di sotto dei 6 anni – le prime e maggiori vittime dell’inquinamento. Sui 20 mila abitanti di Oroya la vecchia, la popolazione infantile è di circa tremila e anche i neonati, dice il dottor Ugo Billa, neurologo presso l’ospedale locale, «hanno il piombo nel sangue, che la madre gli ha trasmesso». Una condizione, aggiunge, che, quando il livello del piombo sia molto alto, «può avere gravissime conseguenze sullo sviluppo psichico e fisico del bambino e anche provocare la morte».
Il medico, un veterano pediatra, si occupa del problema fin da quando – anni Sessanta – non si era ancora capita la gravità del male, tanto che, ricorda, «ci si limitava a fare l’esame sui capelli invece che sul sangue». Ammette di essersi trovato in mezzo a «questa faccenda» senza una competenza specifica, senza dottorati o titoli accademici, e «tutto quello che so l’ho imparato sul campo, giorno dopo giorno». Lamenta che il ministero della Sanità si sia accorto troppo tardi del «fenomeno» e non si sia mai preoccupato di accertare se l’inquinamento avesse aggredito con la stessa violenza altre località della zona e della valle minacciate dalla ciminiera.
A chi si chiede quale conclusione potrà avere il conflitto in corso tra la necessità di tenere in vita la miniera-fonderia e la presenza di condizioni ambientali che garantiscano la salute della popolazione, lo scrittore Amador Pérez Mandujano dà una risposta amara: «Il futuro di La Oroya è incerto. La gente sta un poco sulle spine per il suo avvenire. La città di La Oroya, così come la si vede oggi, dipende dall’Impresa e il giorno in cui la Fonderia scomparirà, scomparirà la città. Questo è quanto. vero che i fumi hanno fatto ammalare la gente, ma è anche vero che l’Impresa non ha fatto nulla per porvi rimedio. La soluzione, a questo punto, non è di chiuderla, ma piuttosto di rinnovarla e modernizzarla. I giovani se ne vanno perché non ci sono opportunità.
Occorrono nuove strutture economiche che comportino lavoro. Da questo dipende il futuro di La Oroya».
 questo, in definitiva, l’obbiettivo del Mosado – Movimento per la salute di La Oroya – nato nell’aprile 2002 e composto da una ventina di membri. Lo dirige una signora di mezza età, Rosa Amaro, che vado a trovare nel suo quartier generale, un polveroso sgabuzzino pieno di libri. Suo marito sta dormendo, annichilito, sull’unica poltrona disponibile: ma di lui sembra esserci molto poco nella tuta da lavoro che indossa. «Ha 36 microgrammi di piombo nel sangue – informa la donna ”, 26 in più del livello stabilito dall’autorità sanitaria, che è di dieci. E poiché le disgrazie non vengono mai da sole, abbiamo un figlio che all’età di cinque anni aveva nel sangue 58,3 microgrammi di piombo».
Per la signora Rosa, l’Impresa continua a mentire quando sostiene che c’è stata, negli anni, una riduzione delle sostanze velenose che la ciminiera ha vomitato su La Oroya dal ’97 ad oggi. All’epoca, limitare la contaminazione con un impianto di acido solforico sarebbe costato 120 milioni di dollari: il prezzo pagato dalla Doe Rum per l’acquisto del complesso. Dovrebbe rallegrare la notizia dell’ultima ora, secondo cui quel magico impianto entrerà in funzione il mese prossimo. L’arcobaleno, dopo anni di tempeste. Ma la malattia più diffusa a La Oroya è lo scetticismo: ed è questo il piombo che ha nel sangue.
«Il fatto curioso – dice Meliton Rivera, un minatore di 41 anni, licenziato per aver fatto ricorso, insieme ad altre 65 persone, alla Corte interamericana dei diritti umani – è che noi lo dobbiamo pagare, in un modo o nell’altro: e che allo stesso tempo ci condannano a vivere e a morire per la fabbrica». Per andarlo a trovare, nella sua casupola con il balcone alto sui tetti, ho dovuto fare 141 gradini, una gran bella fatica: inoltre, già spompato dopo i primi dieci, sono stato oggetto di ironico compatimento da parte di chi scendeva e bisbigliava, con un sorriso andino: dai nonno, prendi fiato.
Meliton ha quattro figli, due dei quali ricoverati in un ospedale di Lima per un esame approfondito del sangue, su cui già gravano 37 microgrammi di piombo ciascuno. «Non sono in condizioni di ridermela – aggiunge ”. Ho l’affitto da pagare, accetto qualsiasi lavoro che mi venga offerto, imbianchino, sguattero, manovale, uomo della vasura: appena ieri ho fatto le ore piccole in un forno del pane».
La notte, quando le luci gialle e forti della raffineria si fondono con quelle più deboli e variopinte sparse intorno sulle montagne, Oroya l’antigua si anima moderatamente lungo i viali e le gradinate: gente che va, gente che viene, figure di vecchine ingobbite sotto grandi scialli e cappelli che scompaiono inghiottite dal buio. Finita la giornata, i minatori che sono riusciti a rimanere sul libro- paga, insieme agli amici e colleghi disoccupati, si ritrovano all’osteria: piccoli angusti locali invasi dal fumo e dalla musica assordante del Juke-box. Uno dei motivi più gettonati è Bolero cantinero, condensato dell’allegria, malinconia e nostalgia dell’uomo del Sud. Li senti ridere, parlare, discutere ad alta voce: finché qualcuno stramazza sul pavimento come un sacco di farina, il sangue avvelenato non dal piombo ma da ettolitri d’aguardiente.
Tranne qualche irriducibile votato al suicidio, la popolazione ha optato per una soluzione morbida del conflitto. Ha prevalso la filosofia accomodante di José Mogrovejo quando ha asserito che, in fondo, «con 70 milligrammi di piombo nel sangue si vive benissimo». E anche il neurologo dottor Billa, che ha i piedi per terra ed ha contatti quotidiani con la comunità, sostiene che bisogna assolutamente garantire la sopravvivenza dei tremila dipendenti della fonderia (1800 i minatori veri e propri, il resto impegnato, senza contratto, in mansioni di contorno) che lavora ininterrottamente giorno e notte, sette giorni la settimana.
Argomento incandescente, questo, per Annibal Carhuapoma, che è stato segretario generale del Sindacato dei lavoratori metallurgici dal 2 gennaio 2007 al luglio del 2008, quando venne licenziato in tronco, per comportamento scorretto. La direzione della Doe Run lo aveva ritenuto responsabile di uno sciopero selvaggio avvenuto mentre lui era al vertice dell’apparato sindacale. «Con l’assenso del mio avvocato – dice ora – ho contestato la decisione dell’azienda perché a scioperare eravamo in tanti e solo io ero il punito. In realtà, ero il classico sassolino nella scarpa della Doe Run, che se lo è tolto per camminare più spedita».
Quarantatré anni e 19 di miniera, non poteva tollerare, Annibal, che l’Azienda si considerasse e comportasse da «padrona assoluta », anche dello stesso sindacato. Scuro di pelle, un volto dai tratti decisi disegnato da una mano intollerante di sfumature e tenerezze, il minatore-sindacalista ha deciso di battersi con tutte le sue forze per tornare in «fucina», come lui definisce quei cunicoli di terra nera dove i giorni sembrano mesi e i mesi anni e secoli. «Ho la solidarietà di tutti i miei colleghi – afferma senza esitazione – perché sono stato sempre un lavoratore onesto. Io sono religioso e rispetto la legge. Inoltre, ciò che mi sostiene nella vita è l’amore per il prossimo».
Sulla Doe Run il suo giudizio è severo: «Non è mai stata un’Impresa trasparente – dice quasi sillabando l’aggettivo ”. I profitti finivano tutti in tasca ai padroni, i quali non hanno mai pensato a una equilibrata ridistribuzione della ricchezza, come avviene in alcune delle più illuminate industrie moderne. Per quanto riguarda la crisi attuale, per me il problema non è l’inquinamento. La Doe Run è d’accordo col governo peruviano sulla questione dell’ambiente, anche se il flusso immane dei veleni non è affatto diminuito. Ma coi lavoratori non c’è mai stato un tentativo d’intesa. L’impresa ci nega il diritto di sciopero e a fatto di tutto per dividere il movimento sindacale, per asfissiarlo. Questa è la verità».
I giornalisti – sento dire – non sono graditi a La Oroya, che intende restare estranea ai pettegolezzi economo-politici internazionali: ma se qualcuno ci mette piede, l’ordine e di ridurre al minimo la pioggia dei veleni durante la loro permanenza. Ordine perfettamente rispettato in occasione della visita, qualche tempo fa, di una troupe della Cnn:
solo che, essendo ripartita con un giorno di ritardo rispetto al previsto (e all’insaputa degli 007 della Doe Run), i telecronisti americani hanno corso il rischio di essere travolti dal diluvio universale.
Ettore Mo