Marco Imarisio, Corriere della Sera 2/9/2008, pagina 19, 2 settembre 2008
Corriere della Sera, martedì 3 settembre 2008 Pietro delle Case gialle non è cambiato. Il solito numero di telefono, la solita vita, il solito dialetto stretto dove l’italiano compare solo per «baraonda », usata come intercalare di qualunque frase
Corriere della Sera, martedì 3 settembre 2008 Pietro delle Case gialle non è cambiato. Il solito numero di telefono, la solita vita, il solito dialetto stretto dove l’italiano compare solo per «baraonda », usata come intercalare di qualunque frase. Anche i capelli, garantisce lui, hanno ancora il loro colore improbabile, paglia mischiata a strisce di nero alla radice, che sembra riprodurre l’intonaco dei palazzi di Pianura dove è cresciuto. «E che dovevamo fare? Questi di Trenitalia non volevano farci partire. C’era anche un capotreno vestito di verde che ci urlava dietro, "vi ordino di andarvene". Guagliò, tu non hai capito, noi non ce ne andiamo proprio, e se ci piglia male gli ordini te li infiliamo anche nel...». La frase monca può essere completata senza grossi sforzi di immaginazione. Ma anche le parole di Pietro sono le stesse di gennaio, non hanno stagione. Basta sovrapporre la parola «Polizia» a «Trenitalia» e si torna alle notti di Pianura, quando gli ultrà della curva A del Napoli non si limitarono a disporre a piacimento di un treno, ma fecero lo stesso con lo Stato. «Quanto ci siamo divertiti – rievocare lo emoziona – e quanta ve ne siete fatta sotto, voi giornalisti. Avevate paura di quella baraonda, eh?» Gli piace un sacco, quel concetto, ancora di più la sua applicazione pratica, che ebbe una punta di eccellenza nel gennaio scorso, quando Pietro e quelli come lui divennero uno strumento perfetto nelle mani dei camorristi della zona contrari all’apertura della discarica nel quartiere. Volevano la «baraonda», il casino totale, l’anarchia. Gli ultrà della curva A glieli fecero trovare su un piatto d’argento, condito da petardi e bombe carta, autobus incendiati, pompieri attirati fuori dalla caserma e massacrati di botte, poliziotti bersagliati con pezzi di motore d’auto. Ogni portata di quel lauto pasto costava 50 Euro, la mercé di ogni incappucciato in motorino. «Là fu davvero una baraonda, ma guarda che domenica in stazione non è successo niente. colpa vostra, che avete abolito i treni speciali. Noi a casa non ci restiamo comunque, e questo lo devono capire tutti». Pietro dimentica di aggiungere che all’appuntamento in stazione lui e i suoi amici non erano stati invitati. Con i suoi 28 anni, che comprendono un figlio che non vede mai e un paio di condanne, è un’eccezione anagrafica. Uno dei più vecchi dei «N.I.S.S.», acronimo di «Niente incontri solo scontri», gruppo di fuoriusciti dalle Teste matte ’87, le quali a loro volta hanno subito un’altra scissione che ha generato le «Brigate Carolina». Il pretesto per la diaspora è lo stesso in entrambi i casi, l’eccessiva moderazione dei capi della casa madre. «Quelli che fanno gli scemi con le bandiere non sono nessuno» dice Pietro, lasciando intendere che anche allo stadio la violenza è l’unico modo che conosce per avere un ruolo. Persino nel mondo ultrà, dove non è segnalata la presenza di gentiluomini, loro sono gli indesiderabili, i «cafoni» che arrivano dalle periferie di Pianura o Quarto, quelli che è meglio se restano a casa, soprattutto in trasferta, per evitare scontri. Esiste uno specifico napoletano anche quando si parla di tifosi. Con la sua frammentazione continua, la Curva A del San Paolo riproduce in miniatura la delinquenza metropolitana generata dal sottoproletariato di periferia. Una miriade di gruppi dalla vita breve, spesso in lotta tra loro e sempre contro il resto del mondo. I Fedayn avevano fissato a Napoli centrale il ritrovo comune per la trasferta a Roma. L’antico gruppo della curva B è il trait d’union tra vecchio e nuovo mondo ultrà. «Estranei alla massa», come recita la sigla sul loro striscione, ma vicini ai più giovani. Con la prudenza dettata dagli anni che passano, avevano deciso di stare tutti insieme, per evitare le imboscate dei romani. L’invito era destinato ai Mastiff’s di Forcella, gruppo egemone in curva A. Si sono presentati anche i 200 classici cani sciolti, con le conseguenze del caso. Pietro sente il bisogno di specificare: «Quando dico che nessuno ci tiene a casa, mi rivolgo anche agli altri ultrà». La tracotanza che si evince dalle sue parole è ben giustificata. Fermare i treni, far scendere i passeggeri e requisirli, come nei film western, è l’ennesimo gesto di violenza senza conseguenze. «A noi non ci metti in difficoltà. Gli sbirri non ci fanno paura, e loro sanno che quando ci caricano noi non scappiamo. Vinciamo sempre noi, anche quando prendiamo le mazzate. Perché le mazzate non ci fanno niente. Lo stadio mi piace perché siamo tutti importanti, e gli altri hanno paura di noi». Tocca ai sociologi dire da quale pozza di disagio provenga questa determinazione folle e disperata al tempo stesso. Ma la verità è che finora ha sempre vinto Pietro. «Ti ricordi Pianura? Il mondo intero ha parlato di noi, e non ci siamo scheggiati neanche lo scooter». Andrà così anche questa volta, al netto di qualche arresto. Proprio gli scontri di gennaio sono la dimostrazione che in Italia la violenza da stadio può vincere, che si ha ragione anche quando si ha torto. Basta prodursi in gesti estremi, alzare sempre il livello dello scontro, camminare in territori sui quali le persone «normali», comprese quelle che vestono una divisa, non possono avventurarsi. Come avvenuto domenica in stazione, lo Stato si ritirò da Pianura, e forse fu il male minore, visto che il prezzo da pagare avrebbe potuto essere davvero troppo alto. Di quella discarica decisa con decreto promulgato in nome del popolo italiano non se ne fece più nulla. «Baraonda, ora e sempre». La logica di Pietro non presenta punti deboli. La nostra invece ne ha molti, per fortuna. Gli ordini del capotreno «Quelli di Trenitalia non volevano farci partire C’era anche un capotreno vestito di verde che ci urlava dietro, "vi ordino di andarvene" Tu non hai capito, noi non ce ne andiamo» Marco Imarisio