Federico Geremicca, La Stampa 30/8/2008 pagina 1, 30 agosto 2008
La Stampa, sabato 30 agosto L’accusa è lì, sulla punta della lingua di molti, ancora inespressa perché esprimerla significherebbe (significherà) porre il problema dei problemi, fino ad aprire nel Pd una battaglia politica dagli esiti del tutto incerti
La Stampa, sabato 30 agosto L’accusa è lì, sulla punta della lingua di molti, ancora inespressa perché esprimerla significherebbe (significherà) porre il problema dei problemi, fino ad aprire nel Pd una battaglia politica dagli esiti del tutto incerti. Ma le scelte di Giuliano Amato prima, e Roberto Colaninno poi, hanno riproposto la questione in maniera ineludibile. E la questione, e la conseguente accusa, potremmo sintetizzarla così, se c’intendiamo sul termine: collaborazionismo. Insomma: si può, e fino a che punto si può, collaborare - dando quindi una mano - con Berlusconi e la sua maggioranza? Roberto Colaninno, appellandosi a quella che potremmo definire «etica imprenditoriale», ha ritenuto che si possa. E Giuliano Amato, richiamando il «mandato istituzionale» ricevuto, ha confermato di voler presiedere la commissione sul futuro di Roma, città strappata da Gianni Alemanno al governo della sinistra. Si è nei limiti di un’accettabile pratica bipartisan o siamo già nel campo del collaborazionismo? Francesco Rutelli - sconfitto da Alemanno nella battaglia di Roma - non ha dubbi (e non è il solo) e proprio in una intervista a La Stampa ha chiesto ad Amato di farsi da parte per evitare «equivoci» e permettere «una critica dura a chi ha vinto le elezioni su strumentalizzazioni orribili». Né meno profonde sono le riserve che circondano la scelta di Roberto Colaninno - imprenditore considerato vicino al Pd e padre di Matteo, ministro ombra di Veltroni - di capitanare la cordata che proverà a salvare Alitalia, tirando fuori Berlusconi da un bel mucchio di guai. Qualcuno ha agito - ha accusato Bersani - «con la pistola puntata alla tempia». Ma questo non cambia, per altri, il senso della vicenda: collaborazionismo, intelligenza col nemico. Roba da corte marziale, se fossimo in tempo di guerra... E accusa più o meno simile - con termini, ovviamente, più consoni a un’era di pace - è stata rivolta a Franco Bassanini che, dopo esser entrato nella Commissione Attali voluta da Sarkozy, si è detto disponibile a bissare l’esperienza a Roma, assieme a Giuliano Amato. Analogo anatema è toccato a qualche sindaco democratico apparso troppo disponibile (quando non entusiasta) al confronto proposto dal ministro Calderoli sulla sua mutevole e inafferrabile «bozza federalista». E di tutto, veramente di tutto, è stato detto anche contro Antonio Bassolino, governatore campano che ha rifiutato di firmare la mozione del Pd che è alla base della manifestazione di ottobre contro il governo Berlusconi: «Collaboriamo sul piano istituzionale - spiegò -, non mi pare corretto che io firmi». Collaborare. Oppure non collaborare affatto: qualunque sia il tema e qualunque cosa accada. Non siamo ancora al «tanto peggio tanto meglio» ma certo quest’ultima scelta prefigurerebbe un modo di fare opposizione assai distante da quello che era ipotizzabile alla luce della campagna elettorale svolta e perfino nelle fasi di avvio della legislatura. E infatti, non a caso, molte delle questioni che oggi dividono il Partito democratico - rallentando la definizione di un suo profilo netto - sono appunto legate al carattere dell’opposizione da svolgere. Provare a dialogare e collaborare tutte le volte che l’argomento lo richiede - e il confronto ne dimostri la possibilità - o non collaborare (dialogare) mai e su niente? L’interrogativo ha già rumorosamente diviso Di Pietro da Veltroni. E il piccolo terremoto è niente di fronte a quel che potrebbe accadere all’interno del Pd. La ripresa d’autunno, infatti, sembra fatta apposta per acuire le tensioni tra «collaborazionisti» e «intransigenti», perché le tre questioni che saranno sul tappeto sono di quelle classicamente definibili da «impegno bipartisan»: riforma della giustizia, federalismo fiscale e modifica delle leggi elettorali (quella europea, certo, ma anche quella nazionale, visto che è già pendente un referendum). Al di là delle dichiarazioni di maniera del tipo «collaboreremo se sarà possibile», con che spirito si avvicinerà il Pd all’inevitabile confronto? Già oggi crepe e incrinature sono ben visibili, con dalemiani ed ex popolari più propensi al confronto e leader come Veltroni, Bersani e Rutelli - per esempio - che non fanno mistero, invece, di considerare null’altro che una «trappola» le proposte di dialogo che arrivano dalla maggioranza di governo. La scelta non sarà facile. E non sarà nemmeno indolore. Infatti, al di là dell’influenza che potrà avere sul processo di consolidamento del Pd, essa lascerà più o meno spazio (e renderà più o meno possibile una riconciliazione) all’opposizione galoppante e intransigente di Antonio Di Pietro. Il leader dell’Italia dei Valori si prepara a un autunno caldissimo, e si frega già le mani di fronte alle incertezze del Pd. Per la sua politica tutta giustizialismo e populismo, infatti, certo «collaborazionismo» potrebbe essere manna dal cielo. Per i democratici, insomma, il bivio è tra i più insidiosi: duri per non lasciare spazio a populisti e sinistra radicale o dialoganti ogni volta che è possibile per confermarsi forza di governo affidabile e responsabile? Al di là dei singoli casi e al di là dei singoli collaborazionisti, forse è proprio questo l’interrogativo dalla cui risposta dipenderanno il futuro e la natura del Pd... Federico Geremicca