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 2008  settembre 04 Giovedì calendario

L’espresso, giovedì 4 settembre E adesso cosa mangiamo? Manzi e filetti sono all’indice: "Chi vuole salvare il pianeta deve smettere di comprare carne", intimano eco-militanti come Paul McCartney

L’espresso, giovedì 4 settembre E adesso cosa mangiamo? Manzi e filetti sono all’indice: "Chi vuole salvare il pianeta deve smettere di comprare carne", intimano eco-militanti come Paul McCartney. Frutta e verdura vanno evitate se arrivano da lontano: niente arance californiane, né pompelmi di Israele, si brucia troppo petrolio per trasportarli. Per la stessa ragione persino l’acqua minerale è considerata veleno: a New York chi non si adatta alla ’tap water’, l’acqua del rubinetto, è ormai considerato un grande inquinatore. Fino a ieri si poteva ancora mangiare un branzino senza sentirsi troppo in colpa. Altri tempi. Negli Stati Uniti, dopo la pubblicazione dell’ultimo libro di Taras Grescoe, anche il pesce migra nel territorio dell’etica, dove per cucinare non si consultano più le ricette del Carnacina, ma le tabelle di eco-compatibilità. Grescoe è uno scrittore-giornalista canadese. Una decina di anni fa smette di mangiare manzo e pollo, disgustato dai troppi articoli letti sugli ormoni e gli antibiotici usati negli allevamenti. Ma presto si rende conto che i problemi esistono anche in pescheria. Così decide di dedicare tre anni della sua vita a una colossale inchiesta sul pesce. Gira il mondo, perlustra le coste atlantiche e quelle del Portogallo, frequenta le flottiglie spagnole e francesi, studia le tradizioni culinarie giapponesi, indaga le tecniche di pesca, parla con gli chef più celebrati, intervista i commercianti più esperti, legge i rapporti dell’Onu. Alla fine descrive la sua esperienza in un libro che toglie la gioia di cucinare una ’bouillabaisse’. Il titolo è una parola inventata e intraducibile: ’Bottomfeeders’, in pratica "coloro che mangiano le specie al livello più basso della catena alimentare". Fino a ieri i ’bottomfeeders’ erano i grandi predatori del mare, pesci nobili come il tonno e il pescespada che si nutrivano di acciughe, sardine, sgombri, crostacei. Ma negli ultimi decenni le tecniche di pesca, l’avvistamento dei branchi dal satellite, le reti sottili, hanno distrutto gli stock e i grandi pesci sono sempre meno numerosi. Questo drammatico crollo ha cambiato l’equilibrio ecologico degli oceani e provocato una esplosione di crostacei, aragoste, gamberetti, granchi e altre specie che costituiscono l’anello inferiore della catena alimentare. Saranno loro il nostro cibo d’elezione, ora che i grandi predatori stanno sparendo. I ’bottomfeeders’ siamo noi. Leggendo il volume di Grescoe apprendiamo che il merluzzo atlantico dovrebbe essere bandito dai nostri piatti: ormai sta sparendo dall’oceano e il governo canadese lo ha dichiarato specie da proteggere. Quello che si trova nei supermercati è quasi sempre pescato in modo illegale con reti a strascico. Anche l’halibut andrebbe evitato, assieme ai branzini del Cile e alle cernie. Pure le rane pescatrici si stanno estinguendo. In uno dei passi più emozionanti del libro, Grescoe descrive la tecnica con cui sono pescate, grazie a pesanti reti che rastrellano il fondo degli oceani, arano varchi larghi come autostrade e distruggono ogni forma di habitat. " come usare un bulldozer per cacciare canarini da mangiare per cena", scrive. Anche i pescecani sono sempre più rari perché i giapponesi amano trasformarli in zuppa, una tradizione che gli ecologisti considerano barbara. Grescoe pubblica un lungo elenco di pesci a lunga vita, spesso i più nobili della nostra tradizione culinaria, che andrebbero radicalmente eliminati dalla nostra dieta. E non solo per salvarli dall’estinzione, ma per proteggere la nostra salute. Molti di questi pesci, per esempio il merluzzo, concentrano dentro di sé colossali quantità di sostanze nocive. Soprattutto mercurio. Il salmone appartiene alla seconda categoria presa in considerazione da Grescoe, quella dei pesci da mangiare con giudizio, dopo avere accuratamente controllato il loro cartellino di provenienza. I salmoni che si trovano sul mercato provengono quasi tutti da allevamenti e vanno evitati per una molteplicità di ragioni: contaminano le coste, diffondono i pidocchi di mare e sono dannosi alla nostra salute essendo pieni di antibiotici, Pcb e diossina. Inoltre i salmoni sono carnivori e per nutrirli gli allevatori consumano enormi quantità di pesce di piccola taglia. Il salmone selvaggio è invece ecologicamente assolto. Secondo Grescoe può fare danni solo al nostro portafoglio. Attenti ai gamberetti. Evitate quelli in formato ’jumbo’ che quasi certamente arrivano da "melmosi specchi di mare inquinati dai pesticidi di qualche paese in via di sviluppo". Meglio quelli piccoli, rosa, specie se pescati vicino a casa. Sul tonno ci sono opinioni contrastanti. I giapponesi considerano una barbarie il fatto che in America questi pesci vengano cosparsi di monossido di carbonio prima di essere surgelati, per evitare che la carne diventi scura. In Giappone il tonno è sacro e si sta sperimentando una forma di agopuntura per conservarlo "fresco, rilassato e ancora vivo" durante il trasferimento ai ristoranti dove verrà trasformato in sushi. Grescoe è categorico: il tonno a pinna blu va evitato a tutti i costi sia perché si sta estinguendo, sia perché viene pescato con lenze lunghe chilometri, ciascuna delle quali porta migliaia di ami: una carneficina a cui opporsi. Meglio il tonno dalle pinne gialle, ma bisogna accertare se il metodo di pesca è eco-compatibile e pretendere che chi ce lo vende o ce lo cucina al ristorante ci fornisca queste informazioni. Un discorso analogo vale per il pescespada: contiene parecchio mercurio come tutti i pesci a taglia grossa e prima di mangiarlo (meglio se raramente) è necessario informarsi sui metodi usati per pescarlo. Ed ecco le specie che possiamo mangiare senza tormenti etici. I calamari prima di tutto. Poi le cozze e le ostriche che sono allevate in modo naturale e in mare si comportano come filtri che ripuliscono le acque. Sardine, acciughe e aringhe sono ancora abbondanti e piene di omega 3 salva-colesterolo. Se poi capitate in qualche ristorante della Florida del sud, anche gli alligatori sono consigliati: hanno una carne con pochi grassi e negli ultimi anni si sono moltiplicati come cavallette. E infine ci sono le meduse. Per chi tollera l’idea di averle nel piatto, si tratta di una scelta perfetta: "La più sana e spesso la più gustosa", assicura Grescoe. Meglio abituarsi d’altronde. Dice l’autore che, andando avanti così, le meduse resteranno l’unica specie abbondante in circolazione nel nostri mari. Una prospettiva terrificante per gli oceani e lugubre per la nostra dieta. Grescoe non è un estremista. Ogni sua dichiarazione viene da esperienze verificate sul campo, le sue opinioni sono corroborate da esperti, il suo obiettivo non è l’astensione mistica dal mangiare pesce, ma l’avvio di un controllo sociale sulla provenienza del cibo che mangiamo, obbligando i produttori a certificare quello che fanno. Specie negli Stati Uniti, dove il controllo sui produttori e i commercianti di alimenti è assai più blando che in Europa, sembra un’utopia. Ma Grescoe ci rivela che Wal-Mart, il gigante della distribuzione, recentemente ha deciso di vendere solo pesce ’ecologicamente sostenibile’ e sta addestrando i coltivatori di gamberetti asiatici ad adottare sistemi di coltivazione adeguati. Persino il pesce che McDonald’s e Burger King mettono nei loro sandwich è merlano dei vivai dell’Alaska, con il certificato di eco-compatibilità. D’altra parte, chi va in pescheria ed è tormentato da dubbi etici se comprare un halibut atlantico o un branzino dei mari del Nord, può accendere il telefonino e andare su mobile.seafoodwatch.org. Lì trova l’elenco dei prodotti permessi e di quelli proibiti. Ma è meglio fare la lista della spesa prima di uscire, andando sul sito montereybayaquarium.org. Lì cliccate su ’Seawatch’ e trovate un elenco lungo una pagina delle specie da evitare che comprende spigole, merluzzi atlantici, granchi reali, sogliole, passere nere, halibut (dell’Atlantico), mahi mahi, cernie, rane pescatrici, pescecani, gamberetti coltivati o importati, pescespada, tonni. Taras Grescoe è l’ultimo eroe di un movimento per cambiare le abitudini alimentari degli americani che negli ultimi due anni ha fatto passi da gigante. Uno dei precursori di questa tendenza è Michael Pollan, professore di giornalismo a Berkeley, in California, che nel gennaio 2008 pubblica un lungo saggio sul magazine del ’New York Times’ con un titolo che diventa immediatamente uno slogan: ’Mangia. Non troppo. Soprattutto piante’. Stupito dal successo di quell’articolo (che rimane in testa alla classifica dei pezzi più letti del ’Times’ per molte settimane), Pollan decide di scrivere un libro sull’argomento: ’In Defense of Food: An Eater’s Manifesto’ che subito scala la lista dei libri più venduti d’America. Pollan non si occupa della nostra dieta, ma della provenienza del cibo che mangiamo. La sua idea fissa è che l’industria alimentare, in mancanza di una cultura di riferimento, abbia espropriato il popolo americano del controllo sull’alimentazione. Il primo comandamento del suo decalogo recita: ’Non mangiare nulla che tua nonna non riconoscerebbe come cibo’. Al secondo posto: ’Non mangiare nulla che contiene ingredienti che non sai pronunciare’. Pollan sostiene che il vuoto della cultura alimentare americana è stato riempito dal cosiddetto nutrizionismo scientifico di cui si sono appropriate le industrie alimentari, dalla Kellog alla McDonald’s. Il manifesto di Pollan invita i suoi compatrioti a spendere di più per comprare prodotti locali. In particolare invita a privilegiare carni di animali che mangiano erba perché le mucche americane, nutrite con il frumento che costa poco grazie ai finanziamenti pubblici, hanno problemi di salute e sono quindi allevate ad antibiotici. Parallelamente all’opera propagandistica di Pollan, negli Stati Uniti è nato il movimento dei ’locavori’ (dichiarata parola dell’anno nel 2007 dall’Oxford American Dictionary), cioè quelli che mangiano solo prodotti locali. Una coppia di Vancouver (Alisa Smith and J.B. Mackinnon) ha scritto un libro intitolato ’100-mile diet’, la dieta delle cento miglia, che si pone un obiettivo: mangiare solo alimenti prodotti in un raggio di cento miglia da casa. Si organizzano mercatini, si creano consorzi per dare supporto organizzativo ai piccoli agricoltori locali, si escludono dalla propria tavola, per principio, tutti i prodotti che non sono di provenienza locale. In Stati come l’Illinois la pressione è diventata tale da spingere molti amministratori a chiedere cambiamenti nelle coltivazioni in uno Stato dove l’agricoltura produce in gran parte frumento da esportare, mentre il cibo degli abitanti viene per il 90 per cento da fuori. L’ultima protagonista di questo movimento si chiama Barbara Kingsolver, nota scrittrice che un paio di anni fa si è ritirata con marito e figli in un paesino sui monti Appalachi del sud. Qui ha vissuto per un anno intero mangiando solo i prodotti della propria fattoria e di quelle della zona. Poi ha raccontato la propria esperienza in un libro che è andato a ruba: ’Animal, Vegetable, Miracle’. Fenomeni di fanatismo estremista, dirà qualcuno. Ma la caparbietà degli americani nell’affrontare i problemi non va sottovalutata. Negli anni Cinquanta erano i più grandi fumatori del mondo e, dopo una campagna durata decenni, pur venata da estremismi sorprendenti, hanno ridotto i consumatori di sigarette a un’esigua minoranza. Oggi vantano il record mondiale dell’obesità e della cattiva alimentazione. Ma la crisi ecologica e il primato nel diabete li stanno spingendo a cambiare strada. Chissa dove arriveranno. Enrico Pedemonte