Paolo Forcellini, L’espresso 4/9/2008, pagina 144, 4 settembre 2008
L’espresso, giovedì 4 settembre Maurizio Sacconi è uomo d’onore e bisogna credergli quando smentisce che sia all’ordine del giorno del governo un nuovo innalzamento dell’età pensionabile, dopo la riforma degli ’scalini’ che porterà quella di anzianità a 62 anni con il 2013
L’espresso, giovedì 4 settembre Maurizio Sacconi è uomo d’onore e bisogna credergli quando smentisce che sia all’ordine del giorno del governo un nuovo innalzamento dell’età pensionabile, dopo la riforma degli ’scalini’ che porterà quella di anzianità a 62 anni con il 2013. E il ministro del Welfare nega anche che vi sia all’orizzonte un incremento dell’età per l’assegno di vecchiaia delle donne, oggi a 60 anni contro i 65 degli uomini. Di tutto ciò si riparlerà, semmai, nel 2014. Ma siccome a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, non si può escludere che il ritocco delle regole per la pensione rosa, scacciato dalla porta, rientri dalla finestra. Il pertugio potrebbe essere la revisione dei coefficienti di trasformazione (del montante contributivo in pensione) che tengono conto degli anni di vita attesa per chi si ritira dal lavoro. Che tale revisione sia una priorità è lo stesso ministro a ribadirlo: entro l’autunno sarà varata la commissione governo-sindacati per ridefinire i parametri. Obiettivo massimo: il varo dei nuovi coefficienti per l’inizio del 2009, pur sempre con quattro anni di ritardo rispetto alle prescrizioni della legge Dini del 1995. Tecnicismi di scarso peso finanziario? Tutt’altro. Basti pensare che le aspettative di vita per i sessantenni sono aumentate di tre anni nell’ultimo quindicennio. Per mantenere in equilibrio il nuovo sistema su base contributiva - che progressivamente sta sostituendo quello retributivo - non vi sono che due vie: o allungare di tre anni l’età di pensionamento o ridurre proporzionalmente, a parità di anni di lavoro, l’importo degli assegni. il risultato cui mira l’aggiustamento dei coefficienti (che i sindacati finora hanno cercato di rinviare alle calende greche). Qui potrebbe entrare in ballo il ’fattore D’, come donna. Tra gli esperti si fa notare che se le attese di vita sono cresciute parallelamente per tutti i sessantenni (è questa l’età media effettiva di pensionamento sia per gli uomini sia per le donne), è rimasta invece immutata la forbice delle aspettative di vita tra maschi e femmine: queste ultime vivono mediamente quattro anni e mezzo più del ’sesso forte’. Corollario ovvio: le signore percepiscono l’assegno ben più a lungo dei signori, grosso modo per 25 anni contro 21. Altro corollario: mantenendo il ’privilegio’, contestato in sede Ue, della pensione di vecchiaia per le donne a partire da 60 anni, mentre con gli scalini si sta salendo al di sopra di quell’età per l’anzianità (le pensioni di quest’ultimo tipo sono appannaggio soprattutto dei maschi), si determina un ulteriore vantaggio di genere per le donne (ma temporaneo: verrebbe infatti meno con l’affermarsi pieno del sistema contributivo, dove chi versa più contributi più riceve). Corollario Kostoris (copyright dell’economista Fiorella): data la loro maggiore longevità, e l’età in genere inferiore di tre anni rispetto ai coniugi, alle donne va circa il 90 per cento delle prestazioni ai superstiti. Si produce un altro, rilevante squilibrio di genere. Tirate le somme, non dovrebbe stupire che a Palazzo Chigi e dintorni qualcuno rifletta sull’ipotesi, politicamente ardua, di arrivare a due coefficienti di trasformazione diversi, uno per gli uomini e uno per le donne, tenuto conto delle difformi attese di vita. Ne conseguirebbe, a parità di retribuzione, che per ottenere un eguale assegno di quiescenza una donna dovrebbe lavorare più a lungo di un uomo. Un espediente forse meno visibile dell’aumento dell’età ma probabilmente più incisivo e con una sua coerenza con i principi del modello contributivo. Inutile dire che anche su questa soluzione si leverebbero ancora più alte le voci critiche che già a più riprese hanno accompagnato le proposte di innalzamento dell’età di vecchiaia. Quando ad esempio Emma Bonino, allora ministro, spezzò una lancia in favore della ’signora Gina’ che desiderava lavorare fino a 65 anni (ma i 60 sono una soglia minima, nessuno glielo poteva impedire), o quando nei giorni scorsi Giuliano Cazzola, vicepresidente della commissione Lavoro della Camera, ha presentato un progetto di legge per aumentare gradualmente a 62 anni l’età di vecchiaia per le donne, le loro proposte sono state sommerse da critiche. In primo luogo si è sottolineato che le carriere lavorative femminili sono caratterizzate da frequenti discontinuità nell’occupazione, in larga misura dovute al maggior ’lavoro di cura’ in famiglia (per i figli, i coniugi, gli anziani) che si somma a quello fuori casa. Da cui la maggiore difficoltà a raggiungere la soglia minima dei 35 anni di contributi necessaria alla pensione di anzianità (nel 2006 il Fondo pensioni lavoratori dipendenti erogava circa 1,5 milioni di trattamenti anticipati ai maschi e solo 300 mila alle femmine; al contrario, quelle di vecchiaia andavano a 2,25 milioni di donne e a 1,5 milioni di uomini). A queste critiche i fautori della progressiva parificazione replicano che si tratta di investire (in asili nido, ecc.) per ridurre il lavoro di cura e anche di puntare su un cambiamento di mentalità. Una variante è la previsione di ’crediti’ contributivi commisurati al numero dei figli, in parte già contemplati dalla legge Dini. Inoltre allungare la vita lavorativa delle donne permetterebbe di restringere il gap pensionistico oggi esistente fra i due sessi. Quanto risparmierebbe il sistema da un allungamento dell’età di vecchiaia femminile o da una revisione diversificata per genere dei coefficienti? Le stime sono molto ballerine. Quale sarebbe la nuova età limite minima, 62 o 65 anni, cioè fino alla parificazione con i maschi? E in quanto tempo si realizzerebbe l’innalzamento? Nel caso si scegliesse la strada della revisione del coefficiente, a quanto ammonterebbe la minore spesa? Difficile anche quantificare la reazione ai diversi provvedimenti dei soggetti interessati, le ’strategie personali’, tenendo pure conto che nel frattempo si sta realizzando la fine del divieto di cumulo tra pensione e retribuzione. Secondo un calcolo recente l’importo delle pensioni erogate a donne tra i 60 e i 64 anni ammonta a 10 miliardi. Questo sarebbe quindi il risparmio, secondo il Centro Studi Sintesi, se si portasse d’un colpo l’età di vecchiaia da 60 a 65, e ancor maggiore per gli ulteriori contributi versati. Ma, a parte che le ipotesi di innalzamento sono assai più limitate e graduali, quante delle donne interessate potrebbero comunque andare in quiescenza prima dei 65 ottenendo un assegno di anzianità? Altre stime più ragionevoli parlano di 500 milioni di risparmio per un anno aggiuntivo di lavoro. Comunque sia, si tratta pur sempre di cifre consistenti in tempi di tagli ai bilanci pubblici. Riuscirà il centrodestra a limare le pensioni rosa? Stiamo a vedere. Paolo Forcellini