Maria Mezzetti Luca Piana, L’espresso 4/9/2008, pagina 138, 4 settembre 2008
L’espresso, giovedì 4 settembre Nei capannoni abbandonati delle acciaierie Falck di Sesto San Giovanni, periferia industriale di Milano, il sultano del Dubai, Ahmed Bin Sulayem, non c’è mai stato
L’espresso, giovedì 4 settembre Nei capannoni abbandonati delle acciaierie Falck di Sesto San Giovanni, periferia industriale di Milano, il sultano del Dubai, Ahmed Bin Sulayem, non c’è mai stato. Il re Mida del Golfo Persico, coinvolto in mille business planetari e fervido appassionato di immersioni subacquee e corse di resistenza, dicono i biografi ufficiali, non può seguire di persona tutti gli affari dell’Emirato. I suoi manager, però, stanno trattando per comprare una porzione enorme del comune che un tempo veniva chiamato la Stalingrado d’Italia: un milione e mezzo di metri quadrati. La cifra in ballo è di circa 500 milioni di euro e il buon esito non è scontato, considerando le difficoltà della partita. A vendere è l’immobiliarista Luigi Zunino, schiacciato dai debiti dopo una carriera fulminante culminata qualche anno fa. Al sultano, però, interessa la firma del progetto di riqualificazione delle vecchie acciaierie: l’architetto star Renzo Piano, che per la Sesto del futuro ha disegnato una vera città nella città. Con tutte le complicazioni, burocratiche ed economiche, che ne derivano. L’interesse di Sulayem per Milano non è un caso isolato. Negli ultimi tempi il fiume di denaro che dal Golfo si sta riversando in Europa e negli Stati Uniti ha iniziato a toccare anche l’Italia. Ogni giorno che passa con il prezzo del petrolio sopra i 100 dollari al barile, gli esperti calcolano che gli sceicchi accumulino una ricchezza di un miliardo di dollari. Denari che fanno gola a tutto il mondo. E che le élite arabe stanno investendo sempre più all’estero per allargare la loro sfera d’influenza. L’Italia non è una delle destinazioni predilette: troppe incertezze, scarsa crescita economica, burocrazia imprevedibile. Tuttavia, cercando di superare la cortina di silenzio dietro la quale gli emiri amano nascondere i loro affari, emergono numerose operazioni di peso. Nel mirino della finanza araba figurano alberghi di prestigio, resort di lusso ancora da costruire, grandi progetti di ristrutturazione urbana, come quello per rifare il look al litorale di Palermo. Gli esempi sono numerosi. A Roma raccontano che Mohamed Ali Alabbar, membro di spicco del governo del Dubai, abbia messo gli occhi sul bel palazzo di via Veneto che ospita il Café de Paris. Il cinquantenne imprenditore, ritenuto una delle personalità più influenti del mondo arabo, in Italia ha già messo piede in pianta stabile. Ha aperto a Roma una filiale della sua agenzia londinese Hamptons, che costruisce e vende dimore da sogno. Ed è il socio che lo stilista Giorgio Armani ha scelto per realizzare gli alberghi che portano la sua griffe. Così via Veneto sarebbe il posto giusto per aprire il primo Armani Hotel della capitale. Già oggi, invece, la compagnia elettrica Enel paga l’affitto dei propri uffici localizzati in numerose città italiane a un proprietario che pochi conoscono. Si chiama Sulaiman Abdul Aziz Al Rajhi, ha 88 anni e una sessantina di figli. Assieme ai fratelli ha fondato la banca Al Rajhi, una delle maggiori in Arabia Saudita. La sterminata famiglia è una delle più in vista del Regno, con interessi nell’acciaio, nell’agricoltura e nell’edilizia. Per la rivista americana ’Forbes’, Sulaiman Abdul Aziz è il numero 107 nella classifica dei miliardari mondiali, 17 posizioni dietro Silvio Berlusconi. I palazzi occupati dall’Enel, tra i quali spicca la sede napoletana di via Galileo Ferraris, li ha comprati a fine 2006 in un pacchetto da 600 milioni di euro messo in vendita dalla Deutsche Bank, che a sua volta li aveva rilevati qualche anno prima. Che cosa il gruppo Al Rajhi ne farà non è noto: per il momento, tuttavia, incassa l’assegno che la società elettrica controllata dallo Stato gli stacca ogni mese (nel 2007 il totale si è aggirato attorno ai 30 milioni di euro). Soltanto pochi anni fa, quando era ancora caldo il trauma degli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, non era facile immaginare un così rapido sviluppo degli investimenti dei paesi del Golfo al di fuori dei loro confini. Proprio gli Al Rajhi, ad esempio, erano stati indicati dal quotidiano ’Wall Street Journal’ tra i sospetti finanziatori dell’estremismo islamico, un’accusa alla quale avevano risposto in maniera sdegnata, condannando il terrorismo "in maniera inequivocabile". In realtà, se mai è esistita, la quarantena è durata pochissimo. I motivi sono principalmente tre. Da una parte sono stati i potentati economici occidentali a chiedere soccorso, quando la crisi finanziaria scoppiata l’anno passato ha favorito il rafforzamento dei capitali arabi nelle grandi banche, a cominciare dall’americana Citigroup. La seconda ragione è legata all’interesse dell’Occidente a cercare nuove occasioni di business, sfruttando l’effervescenza delle economie del petrolio. La diplomazia più dinamica, in questo senso, è quella francese, come ha mostrato di recente il presidente Nicolas Sarkozy con la proposta di dar vita all’Unione Mediterranea, un’organizzazione che dovrebbe favorire i contatti d’affari nell’area. La terza spinta, invece, arriva dal Golfo Persico. Gli enormi capitali generati dal boom dei prezzi del petrolio chiedono occasioni d’investimento. Allo stesso tempo non si può escludere che la voglia di affermarsi all’estero e in un paese come l’Italia abbia anche qualche risvolto politico. Il motivo lo spiega Renzo Guolo, che insegna Sociologia dell’Islam all’Università di Torino: "Lo Stato italiano ha scelto di non stipulare con la confessione musulmana un concordato simile a quello della Chiesa cattolica. Così, quando nasce un problema che riguarda la comunità musulmana, la mediazione viene affidata ai paesi che ne rappresentano gli interessi". Anche se gli immigrati che sbarcano sulle coste italiane non provengono dagli sceiccati del petrolio, per i musulmani un paese come l’Arabia Saudita resta comunque un riferimento: "In questi anni l’interlocutore del governo italiano è stato molto spesso la moschea di Roma, sulle cui scelte influiscono in maniera particolare il Marocco e, appunto, l’Arabia Saudita, che si pone come tutore dell’Islam nella sua qualità di custode dei luoghi sacri", sostiene Guolo. Al di là di questi aspetti, non c’è dubbio che siano le possibilità di guadagno a determinare la scelta di investire su un progetto o su un altro. Anche se non mancano puntate nell’industria, il cuore del business islamico in Italia è certamente rappresentato dall’immobiliare e dal turismo di lusso. A Milano il celebre Hotel Gallia, proprio accanto alla stazione Centrale, è stato comprato nel gennaio 2007 da Qatari Diar, una finanziaria governativa del Qatar guidata da Ghanim bin Saad al-Saad, uno sceicco che fra i molti incarichi ricopre quello di presidente di Al-Jazeera Academy. Fino a qualche mese fa, gli uomini del Qatar sull’Italia sembravano intenzionati a puntare forte. Hanno studiato la possibilità di costruire alcuni resort in Sicilia o in Sardegna, senza individuare il posto giusto. Hanno partecipato all’asta, tuttora in corso, per comprare un enorme palazzo a Roma, vicinissimo al Colosseo, dal valore superiore ai 100 milioni. L’edificio è stato messo in vendita dal Monte dei Paschi di Siena e al-Saad, probabilmente, coltiva il progetto di trasformarlo in un albergo di pregio. La formula potrebbe essere la stessa del Gallia, la cui gestione è condivisa con il gruppo Starwood (con il marchio Meridien). Sempre a Milano, nella strategica piazza della Repubblica, si trova invece il Principe di Savoia, un hotel che nel 2003 è stato acquistato per la stratosferica cifra di 275 milioni di euro dal sultano del Brunei, Hassanal Bolkiah Mu’izzadin Waddaulah, noto alle cronache per la collezione di 3 mila auto da sballo e il Boeing 747 con gli accessori in oro massiccio. Il sultano ha inserito il cinque stelle milanese nella sua catena Dorchester, che prende il nome dal noto albergo di Londra dove dormono numerosi tennisti durante il torneo di Wimbledon. Anche la Dorchester negli ultimi mesi ha scandagliato l’Italia per cercare nuove opportunità, senza individuarne con certezza. Al pari di Qatari Diar, gli ultimi mesi avrebbero portato una pausa di riflessione, per verificare come si muoverà il mercato nel prossimo futuro. Un fattore che preoccupa anche gli sceicchi, che non sono disposti a sprecare i loro quattrini e temono che la bolla immobiliare possa scoppiare, alla fine, anche nel Golfo. Decisioni più ravvicinate potrebbero riguardare, invece, gli interessi di altri investitori arabi in Sicilia. Il primo è sua maestà il sultano dell’Oman, Qaboos bin Said, protagonista nei giorni scorsi di un’applauditissima vacanza a Palermo. Stando alle indiscrezioni emerse durante il viaggio, a settembre Qaboos potrebbe annunciare se parteciperà o meno a uno degli affari che gli sono stati proposti, la costruzione di un resort a cinque stelle a Siciliana, in provincia di Agrigento, con un investimento stimato in oltre cento milioni. Il sultano avrebbe messo gli occhi anche sul porto di Palermo, pronto a un investimento di quasi 2 miliardi. Il piano omanita non si scontrerebbe con un altro progetto, al quale starebbe lavorando l’emiro di Dubai interessato anche a Sesto San Giovanni, Ahmed Bin Sulayem. La società di Sulayem che studia l’operazione Palermo si chiama Limitless e l’impresa che si propone richiede in effetti uno sforzo senza limiti: risanare il centro storico della città, tramortito dall’abbandono, partecipando alla società di trasformazione urbana, come viene chiamata, che prossimamente verrà costituita con un bando di gara pubblico. Il legame fra Milano e Palermo è la banca Intesa Sanpaolo, tra i principali creditori del gruppo Zunino e impegnata al fianco di Limitless nello studio dei due progetti. Se palazzi e alberghi sono il piatto preferito dagli sceicchi, non sono mancate acquisizioni nell’industria. La partecipazione di capitali arabi a imprese italiane non è cosa nuova, dall’ingresso del principe saudita Al Waleed in Mediaset a quello dei libici nella Fiat, nella Banca di Roma e nella Juventus, per arrivare al salvataggio della Gucci da parte di Investcorp, un fondo internazionale con il quartier generale nel Bahrain, guidato da Nemir Kardir, finanziere settantaduenne originario di Kirkuk, in Iraq. Ora però l’attenzione sembra essersi spostata sulle medie imprese, da molti considerate il vero filone d’oro dell’industria nazionale. Proprio Investcorp lo scorso giugno ha acquistato la Ceme di Carugate, in Brianza, un’azienda che produce valvole e compressori, e sta ora valutando l’acquisizione della Necta & Wittenborg di Bergamo, che produce, fra l’altro, le macchinette per il caffè in capsule vedute con il marchio Lavazza. Mentre Investcorp è ormai un nome noto per il business europeo, negli ultimi tempi si sono affacciati in Italia altri personaggi. Il primo è il cinquantaduenne Abdul Aziz Al Ghurair, numero 77 nella classifica dei miliardari di ’Forbes’, attivo a Dubai dove gestisce un gruppo che comprende una banca, una società di sviluppo immobiliare, industrie chimiche e di costruzioni. In aprile una sua controllata, la Taghleef Industries, ha comprato per 200 milioni di euro la friulana Radici Film, storica azienda che produce imballaggi e che al gruppo degli Emirati Arabi Uniti interessava per le conoscenze tecniche sviluppate nel tempo. L’affare del prossimo autunno, però, potrebbe ruotare nuovamente attorno al sultano dell’Oman. L’occasione è nata con la sua precedente vacanza italiana, nel maggio scorso a Bari. Lì il suo entourage è stato avvicinato da Luciano Vinella, proprietario delle Vetrerie Meridionali di Castellana Grotte. Vinella ha chiesto un sostegno per partecipare alla cordata messa in piedi per acquistare la Bormioli, storico produttore di barattoli di vetro da anni in difficoltà. Ne è nata una serie di contatti con il Sultanato. Qaboos, però, non entrerà nell’affare direttamente con la sua Oman Investment Company. Lo farà probabilmente un’altra istituzione, interessata a costruire uno stabilimento Bormioli in Oman per sfondare in India e in Oriente. Il nome del benefattore arabo, per il momento, resta top secret. "Non possiamo rivelarlo per motivi di riservatezza", dice Vinella. Una qualità che ai silenziosi emiri fa certo piacere. Maria Mezzetti Luca Piana