Cecilia Zecchinelli , Corriere della Sera 28/8/2008, pagina 13., 28 agosto 2008
Corriere della Sera, giovedì 28 agosto 2008 Parigi. «Essere al servizio di Hannibal vuol dire lavorare 22 ore al giorno quasi senza mangiare, cinghiate e sberle alla minima occasione, insulti e un salario da fame pagato una volta all’anno»
Corriere della Sera, giovedì 28 agosto 2008 Parigi. «Essere al servizio di Hannibal vuol dire lavorare 22 ore al giorno quasi senza mangiare, cinghiate e sberle alla minima occasione, insulti e un salario da fame pagato una volta all’anno». Parola di Hassan e Mona (nomi falsi), ovvero del domestico marocchino e della collega tunisina che un mese fa osarono denunciare alla giustizia elvetica per sequestro e maltrattamenti Hannibal Gheddafi. Quinto figlio della Guida alla Jamahiriya libica, pecora nera della numerosa famiglia del Colonnello, già noto per i frequenti «incidenti» capitatigli (o meglio da lui causati) nei suoi 32 anni di vita, ma comunque potentissimo. E ora infatti al centro di un caso che da umanitario e domestico ha assunto contorni giudiziari, diplomatici ed economici di portata internazionale. A scovare Hassan e Mona, nascosti sotto alta protezione in un «centro medico segreto» in Svizzera, convalescenti nell’animo ma anche nel corpo (solo un mese fa erano coperti di lividi, graffi e tagli), è stato il quotidiano francese Le Monde. Che sotto il titolo «Parlano gli schiavi di Gheddafi», riportava ieri le loro testimonianze e gli ultimi sviluppi della faccenda. Il caso (per chi se lo fosse perso) inizia il 12 luglio quando Hassan e Mona, arrivati una settimana prima a Ginevra al seguito semi-forzato di Hannibal e della moglie Aline vicina al parto, decidono disperati di denunciare la coppia. Subito i due lasciano il terzo piano dell’Hotel Président-Wilson, dove vivevano Hannibal, signora e i numerosi «schiavi» («Già in Libia mi avevano sequestrato passaporto e telefonino», ricorda ora Mona). Tre giorni dopo la polizia federale, nonostante le resistenze delle guardie del corpo, arresta i Gheddafi: lui passerà due notti in cella, lei in un centro medico. Sotto cauzione (312.000 euro) poi la coppia riparte per la Libia, furiosa e con molta voglia di vendetta. E infatti subito scatta la rappresaglia: due uomini d’affari svizzeri (uno della società Asean Brown Boveri) vengono prima arrestati in Libia, poi costretti a rifugiarsi nell’ambasciata elvetica di Tripoli (e sono ancora lì). Vengono ridotti i voli per la Svizzera e tagliate le forniture di greggio. Ministri, avvocati, diplomatici si mobilitano sui due fronti. La rottura delle relazioni con Berna è più volte minacciata. Hannibal (e tutti i Gheddafi) chiedono le scuse della Svizzera e l’archiviazione del caso, gli svizzeri ritengono che questo potrà avvenire solo se Hassan e Mona ritirano la denuncia. Altrimenti «la giustizia farà il suo corso» fino alla prevista condanna (seppur in contumacia) di Monsieur Gheddafi. «Farete marcia indietro?» Chiede Le Monde ai due «ex schiavi». Lo farebbero, rispondono, «perché anche senza una condanna i Gheddafi resterebbero dei violenti e noi le vittime ». Ma nel frattempo l’ira di Tripoli ha toccato anche la famiglia di Hassan. La madre ha passato un mese in un carcere libico: liberata il 15 agosto è tornata in Marocco, dove i medici hanno certificato che durante la detenzione è stata stuprata e ha perso vari denti. Il fratello 24enne, invece, è scomparso in Libia dal 27 luglio, senza lasciar traccia. «So di che cosa sono capaci gli uomini di Hannibal», dice il povero Hassan, con lo «sguardo fisso e intenso di un sopravvissuto». Che però poi aggiunge, determinato: «Fino a quando gli svizzeri saranno trattenuti in Libia e mio fratello non riapparirà, noi non cederemo». Cecilia Zecchinelli